Pandemia, compagni e supposte inconciliabilità

Continuo a leggere critiche da parte di compagni ai post dei Wu Ming, come se fossero “negazionisti”, anche quando spiegano la strumentalità – e la tossicità – del termine negazionista. Ciò mi porta a riflettere sugli aspetti sociali legati alla pandemia, troppo trascurati. Io a ‘sto giro sono impegnata col tirocinio quindi “non ho tempo” per deprimermi o avere troppa paura, non so in caso contrario se avrei avuto la forza che mi ha sostenuta durante il primo lockdown. Intorno a me vedo paura, più spesso angoscia. Molte persone sono consapevoli di non riuscire a controllare le proprie emozioni; vedo nevrosi, troppo nervosismo, ansia. Siamo tutti sospesi sull’orlo di un baratro. E questa è una delle conseguenze della pandemia, anche se trascurata. Non so se si tratta di un altro effetto, trasversale, dell’ipermedicalizzazione della nostra società. Purtroppo ho sempre rimandato letture come quelle dei libri di Illich che sarebbero estremamente utili in questo momento. Una parola che si ripete, la scrivono in tanti su Giap, è virocentrismo. Non significa che si dovrebbe ignorare la pandemia, impossibile farlo, né s’intende negarne l’esistenza o la gravità, però questa ci ha bloccati al punto che si fatica a parlar d’altro. È la priorità, ma la vita scorre comunque, e ignorarlo, in campo medico ad esempio, comporta non pochi “danni collaterali”, con ritardi gravi nella prevenzione, nel controllo e nella cura di una serie di patologie che non verranno conteggiate nelle stime ufficiali. Ecco, preso questo dato, lo stesso avviene con le dovute proporzioni per i rischi sulla salute psicofisica di tutti noi. Star bene non vuol dire solo essere negativi al tampone, lo sappiamo ma forse ce ne dimentichiamo, presi dalla paranoia. Io per prima che per una sudata in bici (grandissima sensazione di libertà che mi mancava da troppo tempo) ho accusato qualche sintomo influenzale che razionalizzando ho associato all’evento specifico, e che però mi ha provocato non poche ansie – avrei voluto fare testamento, per dirla con una battuta. E ritorno sul punto della salute mentale perché mi sembra prioritaria, e troppo trascurata. Come dicono i Wu Ming, 

I controlli fatti dopo la fine di #iorestoacasa (da maggio in poi) hanno riscontrato un aumento generalizzato di suicidi, violenze domestiche, femminicidi, vendite di psicofarmaci, depressione, ansia e disturbi alimentari tra bambini e adolescenti, azzardopatia, dipendenza da Internet e da video e molti altri disturbi. 

E non bisogna andare lontano, né dimenticarsi che la seconda ondata è peggiore perché è anche sparito quell’orizzonte di stabilità futura che potevamo intravedere a marzo (la vulgata era “qualche settimana, qualche mese al massimo di sacrifici da parte di tutti e si tornerà alla normalità”). Il nostro prossimo orizzonte è un Natale contingentato se non proprio chiuso, e pochi riescono a credere alle rassicurazioni governative su fine pandemia e salvezza da vaccino – un’incognita enorme che ci si ostina a considerare vicinissima a noi. Quotidianamente parlo con colleghi e amici che mi raccontano di ragazzi murati dentro da mesi, oppure della difficoltà personale di sentirsi sicuri uscendo di casa anche solo per andare a lavoro. Se ripenso all’angoscia provocata dall’11 settembre mi sembra che un po’ rimpicciolisca di fronte al nostro presente.

Continuo ad esplorare le dimensioni del nostro disagio cercando di orientare almeno me stessa, se non chi mi sta intorno. L’angoscia che ci pervade ha anche molto a che vedere con il rapporto malsano che come società abbiamo con la morte; ne parlano ancora una volta i Wu Ming riguardo al divieto di assistere ai funerali, raccontando la tanatofobia e citando un testo che ho in coda di lettura da un po’, Storia della morte in Occidente. L’autore del libro, lo storico Philippe Ariés “constatava che la morte, nelle società capitalistiche, era stata “addomesticata”, burocratizzata, in parte deritualizzata e separata il più possibile dal novero dei vivi, per “evitare (…) alla società il turbamento e l’emozione troppo forte” del morire, e mantenere l’idea che la vita “è sempre felice o deve averne sempre l’aria”.

Durante il lockdown di primavera sono stati svolti in piena clandestinità dei brevi riti funebri, e questo mi sembra esemplare di un legame con la fine della vita che è tipicamente umano e difficile da cancellare, nonostante il capitalismo faccia di tutto per metterlo quanto meno in sordina. Torno a me, non potrei fare altrimenti: i miei cari sono sepolti in un comune diverso da dove vivo e mi pare di capire che non posso andare a “trovarli” essendo la Sicilia in zona arancione perché non è una necessità. Il che poi è molto soggettivo, io magari l’avverto come tale, ma capisco che non fa girare abbastanza denaro, non produce capitalisticamente e quindi non si può fare. Che poi assembramenti nei cimiteri ne ho visti pochi, evitando puntualmente di andare quella volta l’anno in cui è istituzionalizzato il dovere morale di fare visita ai defunti.

La fine della vita è un momento imprescindibile del nostro essere sociale, e non posso non pensare a tutte le morti solitarie che ci vengono imposte a causa della pandemia, quanta ulteriore solitudine stiamo scontando. È qualcosa che ci manca, ci sta mancando, ci è mancato molto anche a causa dell’estrema individualizzazione della nostra società.

Riflettevo giusto ieri sulla necessità di parlarci, oggi particolarmente urgente seppure difficile, tra la nostra generale afasia e la polarizzazione che ci attraversa, con la pandemia che funziona ancora una volta, oltre l’ambito economico, da acceleratore. Per tornare al discorso con cui ho aperto il post, e cioè le incomprensioni e le fratture apparentemente insanabili tra compagni, faccio fatica a comprendere alcune obiezioni che sembrano più prese di posizioni assunte per principio, mentre un tentativo dialogico sarebbe opportuno. Sto provando a confrontarmi su Twitter, un social che riesco ancora ad utilizzare in qualche misura nonostante le evidenti e sempre maggiori distorsioni del mezzo, e fino ad ora non ho trovato muri ma dialogo costruttivo e la convergenza almeno parziale di diverse posizioni e sensibilità, per questo non capisco l’apparente inconciliabilità che sembra la cifra di molta sinistra con se stessa.  Provo a comprendere e vedo che le diverse esperienze personali ci plasmano in maniera forse esagerata, ma credo che sia scontato che accada. Continuo a navigare tra angoscia e polemiche, vedendo sprazzi di dialogo costruttivo, sperando che il dialogo possa servire a rafforzarci, collettivamente, per la solita storia si sa, together we stand divided we fall.

Sulla seconda ondata, su di noi

Another day, another post-traumatic order
Brainwashed and feeling fine
I bit off more than I could chew when I looked closer
So I stabbed a fork in my eye

Think I’m losing my fucking mind
Don’t know where to turn, now I’m blind

NapoliDa qualche parte a metà tra chi diceva “è solo un’influenza” e chi “moriremo tutti” c’era chi cercava senza troppo sensazionalismo di tenere i piedi ben saldi a terra, per quanto ciò possa essere difficile in un frangente simile, che nessuno di noi pensava davvero di poter vivere. Il rischio era ed è comunque quello di essere accusati di “negazionismo”, quando semplicemente si chiede di usare il raziocinio e soprattutto capire che ci si deve adattare ad una “normalità” completamente nuova, e che è qui per restare. Si è tentato di esorcizzarlo  durante un’estate apparentemente spensierata, che ha dato un po’ di tregua, e respiro, alle nostre ansie, lo si fa ancora ostentando il sempre imminente arrivo di un vaccino che anche nella migliore delle ipotesi non risolverà magicamente la questione in tempi ragionevolmente brevi. Ne parlavo già a fine giugno, quando si andava estendendo la fase di generale rilassamento. Ora è chiaro, si spera: non è passato e non è vero che non sta succedendo nulla. Si ripercuotono conseguenze ai livelli più disparati e non è semplice per nessuno restare sereni. Quotidianamente facciamo i conti con la paura, se siamo in giro per lavoro, se usiamo i mezzi pubblici, quando torniamo a casa come se fosse la routine di sempre e neanche togliamo la mascherina perché ormai sembra essere un complemento indispensabile. [Di contro sento ancora qualche sparuta lamentela di chi dice di non sopportarla, di non riuscire a tenerla, ed evidentemente non l’ha mai tenuta neanche per una frazione del tempo in cui la maggior parte di noi ormai la tiene da mesi]. Io per prima a volte faccio per indossarla quando “non serve” perché senza mi pare manchi qualcosa. Nel post sopra citato riprendo più volte le parole e i pensieri di Loredana Lipperini, che è rimasta una delle poche bussole di questo presente complicato, e continua ad esserlo quotidianamente. Tornano in sella dopo un silenzio meditato, forse necessario, anche i Wu Ming. Loro hanno supplito a lungo a grandi carenze nel dibattito pubblico a sinistra nei momenti più difficili della prima ondata, fino ad arrivare a sbattere. Il loro lavoro è altro del resto, anche se come narratori sanno essere una componente importante del quadro:

Va bene tutto. Perché tutto viene fatto per il più nobile dei fini, al motto «per contenere il virus dobbiamo cedere quote di libertà» (M. Giannini). Quali libertà? Le libertà di chi? In base a quali evidenze scientifiche o almeno empiriche e a quali ragioni logiche?

Sì, perché forse potremmo davvero farcene una ragione se almeno fosse chiaro che serve a qualcosa. Se per salvarci dobbiamo mascherarci (fatto), svuotare le piazze (fatto), introdurre protocolli di comportamento per i luoghi frequentati da molte persone (fatto)… be’, eccoci qua. Gli ammalati però, a quanto pare, continuano ad aumentare. E nel discorso dominante continua a essere colpa nostra, degli italiani «indisciplinati» e «furbetti», che si accaniscono ad avere una vita sociale, a dover andare al lavoro o a scuola con i mezzi pubblici, a volersi tenere in forma fisica anziché arrendersi alla cattiva salute.

È lo stesso copione che abbiamo sentito recitare da febbraio a maggio. Come allora, è un copione non solo classista e fuorviante, ma anche farsesco e tragico allo stesso tempo, perché se dopo sette mesi il sistema sanitario è di nuovo a rischio collasso significa che il provvedimento più efficace nel tempo intercorso è stato quello della rotazione inclinata dell’asse terrestre, cioè l’estate. Adesso che torna il freddo, servono diversivi. Bisogna nuovamente dire che siamo noi a non essere abbastanza «virtuosi», per spostare l’attenzione dall’incapacità gestionale di questi mesi e dai risultati catastrofici delle politiche sanitarie degli ultimi decenni, ormai sempre più manifesti.

Se si aggiunge che la comunità che ruota intorno a Giap svolge un ruolo di analisi e approfondimento veramente notevole, non resta che consigliare anche la lettura dei commenti al post, alcuni dei quali sono stati anche espunti per essere sistematizzati ed evidenziati in un successivo post.
Ed eccoci alla seconda ondata quindi. Siamo a fine ottobre e ricomincia l’ansia da Dpcm, da conferenze stampa annunciate e sempre ritardate. E perché mai poi non firmano i testi nei normali orari d’ufficio, dando l’illusione di lavorare in maniera convulsa e ininterrotta per “salvarci” da pericoli imminenti, tipo quello delle palestre che rispettano i protocolli? (O peggio “per salvare il Natale” in una riedizione dei classici film del periodo di cui possiamo francamente fare a meno). E ancora non siamo tornati alle autocertificazioni, vero incubo kafkiano, mentre ci “raccomandano fortemente”, con la stessa valenza legale di queste righe scritte tra sfogo e disperazione, di limitare le uscite a motivi di necessità, salute, lavoro, soprattutto lavoro. Per il profitto, sempre.

Obey, we hope you have a lovely day
Obey, you don’t want us to come out and play away now, now
There’s nothing to see here, it’s under control
We’re only gambling with your soul
Obey, whatever you do
Just don’t wake up and smell the corruption

Mentre la situazione peggiora, e questa volta non in maniera territorialmente circoscritta, riparte il teatrino della colpevolizzazione individuale, assurda specialmente nel paese della retorica contro le caste, come dicono ancora i Wu Ming. E nessuno vede che hanno perso mesi dietro banchi con le ruote e bonus che sanno di elemosina? In realtà la narrazione scricchiola in maniera evidente. Lo si è visto a Napoli, anche se si cerca di derubricarlo alla voce “camorra” perché fa comodo, è rassicurante oltre che razzista, lo si inizia a vedere anche in altre città. E no, non mi dispiace per le vetrine di Gucci come non mi dispiaceva per le fioriere anni fa (“un gesto politicamente inutile ma umanamente bello” dice il compagno Vanetti). Non sarà una mossa intelligente ma l’indignazione a difesa delle cose mentre si prospetta la fame per molti anche no. E torna utile il commento di Wu Ming 1, che altrove cita anche un interessante pamphlet uscito appena per manifestolibri che, finalmente, fa giustizia e sconfessa la linea governista e di unità nazionale che obiettivamente era illeggibile.

E questo è un governo che fa i tripli salti mortali pur di tutelare gli interessi dell’1%.

La polarizzazione di classe che sta creando quest’emergenza – non la pandemia, come si dice sempre, annacquando l’analisi: la gestione della pandemia – è vertiginosa, siamo dentro un impressionante acceleratore di proletarizzazione. Da una parte le multinazionali, Confindustria, il padronato grande e medio-grande e la classe politica che ne tutela gli interessi, dall’altra tutto il resto della società: ceto medio impoverito, working class, decine di milioni di persone.

Peccato che a sinistra questa cosa non sia stata minimamente compresa, e si sia dato dell’infame “riaperturista” al tizio che gestisce una piccola palestra, al tecnico del suono a partita IVA che senza concerti si è ridotto alla fame ecc. Questi sono proletari e neo-proletarizzati che un’odiosa retorica dipinge da mesi come cinici padroni, irresponsabili, “negazionisti”, stragisti ecc.

Gran parte del corpo sociale sta andando in rovina a causa della retorica diversiva del governo e dei media governisti, una retorica che, col più puro approccio neoliberista, scarica ogni colpa sul corpo sociale, previa sua atomizzazione in singoli individui. Le cose vanno bene? Merito del governo. Siamo al collasso? Colpa dell’individuo.

Ma la gauche-caviar e, purtroppo, parte di quella ex-“radicale” dicono che le rivolte sono solo roba di camorra, di ultrà, di fasci. Proprio non vogliono capire.

Perché non siamo tutti sulla stessa barca, proprio no. Perché qualcuno in questi mesi ha arricchito i propri patrimoni del 31% mentre si ipotizzano tagli agli stipendi statali andando completamente fuori fuoco su chi siano i privilegiati. Come dice il titolo dell’articolo appena linkato: o loro o noi.

You monsters are people
You fucking monsters are people

Obey, we’re gonna show you how to behave
Obey, it’s nicer when you can’t see the chains

(Obey, BMTH with YUNGBLUD)

Realismo capitalista

realismocapitalista

Tra l’1 e il 2 novembre 2018 lessi Realismo capitalista e ricordo che mi colpì molto. Non sono molti i libri che ho voluto rileggere, ma sicuramente questo rientra tra i pochi fortunati. Curiosamente, dopo che pochi giorni fa ho sentito l’esigenza di rileggerlo ho visto nella timeline di twitter un articolo del bibliopatologo di Internazionale su Dove vanno a finire i libri che abbiamo letto? del quale condivido le conclusioni: “Non si può leggere due volte lo stesso libro, non più di quanto si possa immergersi due volte nello stesso fiume. Lo specchietto a conchiglia in cui ti guardasti ragazzina è uguale oggi a com’era allora, ma ogni volta che tornerai ad aprirlo rifletterà un’immagine diversa”. Ed effettivamente ho riletto il testo di Mark Fisher con uguale voracità eppure ne ho colto spunti nuovi e diversi. Ricordo che all’epoca mi lasciò una strana sensazione di ottimismo, poco spiegabile considerato lo smarrimento politico in cui mi trovavo, praticamente da sempre. Ad oggi quello stesso spirito positivo è forse meno entusiastico e più razionale, oserei dire reale.

A questo proposito, cos’è il realismo capitalista? Nella definizione dell’autore “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”. E ancora: “Per come lo concepisco, il realismo capitalista non può restare confinato alle arti o ai meccanismi semipropagandistici della pubblicità. È più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione”. L’espressione realismo capitalista ed il suo senso aiutano a spiegare l’impotenza e l’assenza di qualsiasi opposizione al capitalismo durata decenni. Non finisce qui perché attraverso tutto il testo Fisher descrive il capitalismo con la giusta crudezza: “ogni attività è talmente concentrata sulla produzione del profitto da non essere nemmeno più in grado di venderti niente”; con onestà, parlando dei call center come emblema del capitalismo “È nell’esperienza di un sistema tanto impersonale, indifferente, astratto, frammentario e senza centro, che più ci avviciniamo a guardare negli occhi tutta la stupidità artificiale del Capitale”; con lucidità “Il genio supremo di Kafka sta nell’aver esplorato quella specie di ateologia negativa propria del Capitale: il centro non c’è, ma non possiamo smettere di cercarlo né di ipotizzarlo. Non è che però non ci sia proprio niente: è che quello che c’è non è in grado di esercitare le proprie responsabilità”; e ancora “non è che aziende e compagnie siano gli agenti occulti che tutto manovrano; sono esse stesse espressioni e prodotto della massima causa che un soggetto non è: il Capitale”. Queste ultime due citazioni mi riportano ad un tema ultimamente spesso discusso, in particolare con coloro che sostengono come l’attuale pandemia danneggiando alcuni capitalisti dimostri in qualche imprecisato modo l’impotenza del Capitale in sé, o che comunque il capitalismo non riesca a guadagnare dall’attuale impasse. Questi ragionamenti sono fallaci nella misura in cui vedono il capitalismo come un blocco a se stante, una sorta di Moloch che agisce come un corpo unico per il proprio interesse, mentre la storia del capitalismo si erge davanti a noi a dimostrazione del contrario: un sistema fondamentalmente anarchico in cui soprattutto nei momenti di crisi ci sono vincitori e perdenti anche tra i capitalisti, ed è quello che avviene anche in questa fase dove alcuni colossi effettivamente stanno guadagnando dalla messa in “quarantena” delle nostre vite, vedi Amazon, ma non solo, anche la GDO ad esempio, mentre altri piccoli o grandi attori arrancano e molti ne usciranno sconfitti. Lo stesso è accaduto nelle precedenti crisi, ultima quella del 2008, e così andando a ritroso, confermando quello che già Marx aveva intuito con la sua risaputa lungimiranza quando scriveva ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: “(…) per il volgare egoismo per cui il borghese ordinario è sempre disposto a sacrificare l’interesse generale della sua classe a questo o a quel motivo privato”.

Tornando a Realismo capitalista, il secondo capitolo si intitola “Che succederebbe se organizzassi una protesta e venissero tutti?” e tratta ancora del capitale e in particolare della sua incredibile capacità di sussumere tutto, pure ciò che nominalmente gli si oppone, per metterlo a profitto.

Dopo tutto, come Žižek ha provocatoriamente fatto notare, l’anticapitalismo è ampiamente diffuso tra le pieghe del capitalismo stesso: quante volte nei film di Hollywood il cattivo di turno altri non è che qualche cattivissima corporation? È un anticapitalismo gestuale che, anziché indebolire il realismo capitalista, finisce per rinforzarlo.

Di seguito Fisher fa l’esempio del film Wall-E e afferma “il film inscena il nostro anticapitalismo per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente”. Un po’ come dire che il capitalismo sta su grazie a noi più che nonostante noi: “Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione”.

Un aspetto che rende particolarmente scorrevole e piacevole da leggere il testo è secondo me il sapiente uso di una serie di citazioni, soprattutto cinematografiche, televisive e di testi scritti, di cui vorrei elencare in maniera forse non esaustiva, film e libri per darne un’idea:

elenco fisher

Vorrei fare anche un accenno all’argomento internet. Fisher cita un’intervista al documentarista Curtis che attacca i nuovi media perché creano reti interpassive e bolle in cui ci si ritrova tra individui simili in cui si ripete il bias di conferma, creando ed alimentando continuamente circuiti chiusi. Nel riconoscere la sensatezza di tale analisi Fisher risponde però distinguendo: “un fenomeno come i blog è stato ad esempio capace di generare un discorso nuovo e articolato in una rete che non ha corrispettivi nel campo sociale esterno al cyberspazio. Nel momento in cui i vecchi media vengono sempre più assorbita dalla logica delle public relations e in cui al saggio critico si preferisce la relazione sui consumi, alcune aree del cyberspazio hanno offerto una resistenza a quella compressione critica che altrove è diventata dominante”. Le osservazioni di Fisher si riferiscono ad un periodo che potremmo considerare d’oro per i blog, e Fisher stesso dal 2003 curò un blog, K-punk, che divenne un punto di riferimento di una certa area. Ad oggi i blog hanno avuto sicuramente un arretramento con l’esplosione dei nuovi social media e della loro pervasività. C’è però la speranza e da alcune parti la voglia di restituire centralità ai blog perché il loro potenziale non è affatto esaurito. Come dicevano i Wu Ming in un bellissimo post a fine 2019 annunciando l’abbandono di Twitter:

A chi per ora non se la sente di chiudere gli account sui social commerciali, chiediamo di dare comunque una mano a riattivare voci e canali indipendenti, macchine di comunicazione non gamificate. Chi ha un blog e in questi anni lo ha negletto, torni a scriverci sopra e a promuoverlo, lo rivitalizzi e ne faccia l’epicentro della sua comunicazione quando ha qualcosa da dire. I social, soltanto come rimbalzo. Per le situazioni militanti, come scritto nella prima puntata, questa è una necessità vitale, ma in fondo lo è anche per il singolo individuo. Non è più tempo di essere ex-blogger.

Uno dei temi che attraversa il testo ed è chiaramente presente per la conoscenza che ne ha l’autore è quello della salute mentale: “il realismo capitalista insiste a trattare la salute mentale come se fosse un fatto naturale alla stregua del clima”. Sempre più relegato a problema individuale, è evidente che andrebbe socializzato, poiché le cause sistemiche dell’aumento dei disturbi e delle malattie mentali appaiono in realtà lampanti. Per questo “ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista”. Nell’ultimo capitolo del libro Fisher dichiara:

Dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale.

L’estrema individualizzazione che tende a colpevolizzare i singoli si ripete in altri ambiti, come ad esempio quello del cambiamento climatico, e a proposito della citazione che sopra si riferisce anche al clima, in un inciso Fisher afferma che neanche quello è un fatto naturale quanto un effetto politico-economico. Più avanti afferma: “La causa della catastrofe ecologica è una struttura impersonale che, nonostante sia capace di produrre effetti di tutti i tipi, non è un soggetto capace di esercitare responsabilità. Il soggetto che servirebbe – un soggetto collettivo – non esiste: ma la crisi ambientale, così come tutte le altre crisi globali che stiamo affrontando, richiede che venga costruito. E però l’appello all’intervento etico immediato (…) rinvia continuamente l’emergere di un tale soggetto”.

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I figli degli uomini (2006)

Come sempre la situazione contingente interagisce con la lettura, spingendomi a sottolineare passaggi come il seguente: “La cosiddetta guerra al terrore ci ha già preparato a simili sviluppi; la normalizzazione della crisi ha prodotto una situazione nella quale la fine delle misure d’emergenza è diventata un’eventualità semplicemente impensabile: quand’è che la guerra potrà davvero dirsi conclusa?” Suona terribilmente attuale vero? E non è il primo autore in cui risuona il paragone con la guerra al terrore iniziata dopo l’11 settembre, altri ancora viventi l’hanno potuto cogliere esplicitamente. Parlando del film I figli degli uomini, “(…) lo spazio pubblico è abbandonato, popolato da null’altro che immondizia e animali in libertà (una scena particolarmente suggestiva è ambientata in una scuola ormai a pezzi dentro la quale troviamo una renna che corre). I neoliberali, ovvero i reali capitalisti per eccellenza, hanno più volte celebrato la distruzione dello spazio pubblico: ma contrariamente alle loro aspirazioni ufficiali, (…) non assistiamo a nessun arretramento dello Stato, quanto semmai un ritorno dello Stato alle sue originarie funzioni di stampo militare e poliziesco”. Se non sembra scritto oggi, potrebbe benissimo essere scritto in un domani non troppo remoto, e terribilmente plausibile.

E per quanto riguarda il neoliberismo o neoliberalismo, Fisher non si lasciata affatto ingannare dalla definizione che potrebbe sfociare nel considerare questo cattivo e il capitalismo in sé buono, e mette le cose nella giusta prospettiva:

dopo il salvataggio delle banche, il neoliberismo si è ritrovato – in ogni senso possibile – screditato. Questo non vuol dire che il neoliberismo sia da un giorno all’altro scomparso: al contrario, i suoi presupposti continuano a dominare la politica economica; ma non lo fanno più come ingrediente di un progetto ideologico mosso dalla fiducia per le proprie prospettive future, quando come una specie di ripiego inerziale, di morto che cammina. Quello che oggi appare chiaro è che se il neoliberismo non poteva che essere realista capitalista, il realismo capitalista non ha invece alcun bisogno di essere neoliberale. Anzi: ai fini della propria salvaguardia il capitalismo potrebbe benissimo riconvertirsi al vecchio modello socialdemocratico, oppure a un autoritarismo in stile I figli degli uomini. Senza un’alternativa coerente e credibile al capitalismo, il realismo capitalista continuerà a dominare l’incoscio politico-economico.

La (ri)lettura di Realismo capitalista mi ha motivata a ricercare gli altri testi di Mark Fisher che sono in via di pubblicazione anche in lingua italiana, e mi lascia con il dubbio di cosa scriverebbe Fisher dell’attuale sconvolgente situazione se non ci avesse lasciato, forse sarebbe ancora più speranzoso grazie a e nonostante la pandemia. Restano comunque importanti alcuni dei passaggi dell’ultimo capitolo, tradotto in italiano “super-tata marxista”, con i quali vorrei avvicinarmi alla fine di questo post.

Contro l’allergia postmoderna alle grandi narrazioni dobbiamo riaffermare che, anziché trattarsi di problemi contingenti e isolati, sono tutti effetti di un’unica causa sistemica: il Capitale. Dobbiamo insomma cominciare, come se fosse la prima volta, a sviluppare strategie contro un Capitale che si presenta ontologicamente (oltre che geograficamente) ubiquo.

E infine

Anche se è chiaro che la crisi non porterà da sola a nessuna fine del capitalismo, ha avuto comunque l’effetto di sciogliere in parte una certa paralisi mentale. Siamo adesso in un panorama politico disseminato di quelli che Alex Williams ha chiamato “detriti ideologici”; è un nuovo anno zero, e c’è spazio perché emerga un nuovo anticapitalismo non più costretto dai vecchi linguaggi e dalle vecchie tradizioni.

La paralisi mentale di cui parla qui Fisher ha sicuramente subìto un’altra scossa imponente dall’attuale pandemia. Non è mai stato chiaro come oggi alle diverse generazioni che ora si affacciano nel XXI secolo quanto il capitalismo sia un vicolo cieco per sicurezza non solo economica e sociale ma anche per la salute collettiva. Da questi punti fermi, tocca costruire l’alternativa.

Guardare il dito

Articolo 1(Ulteriori misure urgenti per il contenimento del contagio)

1.Le uscite per gli acquisti essenziali, ad eccezione di quelle per i farmaci, vanno limitate ad una sola volta al giorno e ad un solo componente del nucleo familiare.

2.E’ vietata la pratica di ogni attività motoria e sportiva all’aperto, anche in forma individuale.

3.Gli spostamenti con l’animale da affezione, per le sue esigenze fisiologiche, sono consentiti solamente in prossimità della propria abitazione. (Ordinanza contingibile e urgente n°6 del 19.03.2020 Ulteriori misure per la prevenzione e gestione dell’emergenza epidemiologica da Covid-19. )

Questo dispone la Regione Sicilia nella giornata di ieri, seguendo a ruota le ordinanze comunali o regionali, ad esempio di Messina o dell’Emilia Romagna. La correlazione tra le persone che fanno attività fisica all’aperto e i ricoverati in terapia intensiva, o i contagiati da Covid-19? Nessuna. Piuttosto il fatto che l’area più produttiva (e più inquinata, cosa da non sottovalutare) del paese, con lo slogan “Bergamo is running” abbia imposto di non chiudere le attività non essenziali e abbia subìto il più alto tasso di casi, tendenza che purtroppo non accenna a ridursi dice niente?

ConfBG

Qui il video completo, non rimosso da Confindustria Bergamo che non si scusa ma si limita, chiamata in causa, a twittare:

confbg2

Perché la gogna per chi fa attività fisica mentre i veri colpevoli sono da tutt’altra parte, a partire da chi nei decenni scorsi ha smantellato la sanità pubblica, e per finire a coloro che continuano ad anteporre i loro profitti alla salute di tutti? Come spiega un lodevole articolo di The Submarine, le FAQ del governo, almeno finché la pressione delle amministrazioni locali e regionali non cambierà l’inerzia, prevedono espressamente la possibilità di fare attività fisica all’aperto.

GovernoFAQ

Il virus non va a caccia dei solitari o comunque socialmente distanziati runners, semmai si annida negli spazi chiusi, affollati, come i mezzi di trasporto ridotti dall’emergenza e tragicamente più affollati perché i lavoratori costretti a recarsi ogni giorno a lavoro non sono diminuiti di conseguenza, o come le fabbriche o i magazzini della logistica che continuano ad essere aperti finché i lavoratori non si uniscono per difendere la loro salute proclamando scioperi con lo slogan ricorrente “non siamo carne da macello!“. Anche Amazon riduce le consegne, orientandosi sui beni di prima necessità, evidentemente a seguito delle proteste dei lavoratori che denunciavano condizioni di lavoro tutt’altro che esenti dal rischio contagio. Nel frattempo, invece di discutere della tutela della salute degli operatori sanitari in primis, e di tutti gli altri lavoratori che per necessità rischiano quotidianamente, gli stolti puntano il dito contro gli “egoisti” che corrono all’aria aperta sprezzanti del male intorno.

La sensazione è che le amministrazioni abbiano troppa fretta di dimostrarsi efficienti prima ancora che efficaci in questo frangente emergenziale, e aumentino le prove muscolari cercando di rispondere a, ma incrementando, le ansie e le paure della popolazione, la quale avrebbe bisogno di risposte circostanziate e ragionevoli, ben lontane dal panico morale che si sta creando, e concretamente efficaci. Purtroppo sollevare obiezioni, mantenere sguardo critico e lucido sembra essere ogni giorno più difficile e per fortuna resistono spazi come Giap in cui si analizza la questione dal punto di vista legale e non solo. E sono più che mai necessarie le analisi e le prese di posizione come quella di Sara Gandini su Effimera. Sembra una vita fa quando esponevo i miei dilemmi sull’uscire all’aria aperta con il bambino per portarlo in spiaggia. Per fortuna poi l’ho fatto, e sono stata serena un po’ di più, sopportando le marachelle solite dei “terribili due” col sorriso invece che con l’esasperazione. Riusciremo a rivedere il mare?

Resistere nell’emergenza, uscire coi corpi e con le menti

La necessità di scrivere in questo frangente è aumentata, moltiplicata dalle mille sollecitazioni neurali, più si ferma il corpo più la mente cammina, ed oltre al durante, al qui ed ora urgente e impellente, si viaggia fino ad un domani indefinito perché chissà quando riavremo una parvenza di normalità. Si ragiona quindi del dopo, in forme diverse, in forma di articolo come fa Francesco Costa su il Post, in forma di racconto come fa @MonsierEnRouge, ammettendo chiaramente che sei mesi fa (ma anche due) sarebbe stato fantascienza, e invece. C’è in parte un ripiegarsi in se stessi, comunque scoprendo la responsabilità perché come dice Pietro Saitta non si può prescindere dal sé. Ne risultano diari densi che non possiamo che condividere, ad esempio quello di @Yamunin, sono comunque tutte forme di resistenza all’emergenza, o meglio ai dispositivi che ci vengono imposti in suo nome.

Come sto trascorrendo le giornate, mi chiede una cara amica. Leggo, leggo tanto, dovrei leggere tante cose ma leggo soprattutto di questo eterno presente sospeso: necessità, ricerca di vie di fuga. Sto scrivendo col nano in braccio che mi tiene la penna. Mi riempie le giornate, questo è sicuro, vorrei riempire le sue: ho paura che si annoi. Stamattina abbiamo fatto di nuovo le bolle di sapone in balcone, fortuna che c’è il sole. Vorrei portarlo fuori a passeggiare, ne ha bisogno più di me che sono pantofolaia da sempre (anche se, il divieto crea ribelli, l’occasione fa l’uomo leader, no ladro, insomma…) So che non c’è un divieto di passeggiare ma so che meno ci muoviamo più sicuri siamo e mi sento bloccata. Nel weekend ho fatto uscire il consorte da solo, perché ne aveva sicuramente bisogno, al contrario di me. In settimana lavora comunque, e chissà quanto è sicuro in giro; quindi cerco i modi per farlo stare a casa in sicurezza, scioperi non se ne parla, il motto è ognuno per sé e neanche questa situazione assurda apre gli occhi né tanto meno il cuore, è tutto un si salvi chi può.

Se uscissi col nano per una sacrilega passeggiata avrei la sicura riprovazione, oltre i fermi rimproveri di gente più “sveglia” di me, anche se lo portassi a passeggiare in uno spazio aperto e vuoto, metti la spiaggia di ponente. Dovrò farlo. Quello che odio è dovermi scontrare con la presunzione autoritaria per cui l’invito a stare in casa è un obbligo inderogabile, come se non fosse necessità uscire di casa per respirare, guardare il mare, fare una passeggiata. E mentre cucino ho la fortuna di ascoltare la voce della compagna Filo e le sono grata. Se qualcosa di buono esce da questa crisi è il moltiplicarsi delle nostre voci, le analisi e e le riflessioni. Ancora una volta è imprescindibile Giap, dai consigli di resistenza all’emergenza, al primo dei due post di Wolf Bukowski, appena pubblicato, il cui lavoro sul decoro torna più che mai utile proprio adesso. Tutto questo sembra cozzare fortemente con la narrativa dominante, mi dicono che essendo fuori da Facebook non mi rendo conto dell’unanimità della retorica unitaria e persino patriottica, dettata dalla paura, da uno sconvolgimento del quotidiano di ognuno di noi che non ha precedenti, e forse è un bene per la mia sanità mentale. Continuo a preferire altre strade, ed è confortante sapere di non essere sola. Ascoltate ancora la compagna Filo, e la sua Cappuccetto Rosso ai tempi dell’emergenza, è necessario e anche bello.

Il coronavirus e noi

p-402-maschera_naso_scaramouche_ironNon mi piace scrivere dell’argomento del giorno perché è evidente che il cosa sia importante prima ancora del come e del perché; si tratta dell’annosa questione dell’agenda setting, che sovradetermina il resto. Tutto vorrei fare fuorché parlare del coronavirus, tema che ormai domina l’intero spettro informativo relegando ai margini tutto ciò che accade (ehi, il mondo non si ferma, nonostante tutto, al massimo si ferma Milano… frega ancora qualcosa del Rojava, ad esempio?), al punto che pure il calcio, argomento che normalmente almeno una volta a settimana da noi prende il sopravvento nel discorso pubblico, ne è fortemente condizionato con stop e rinvii. Dev’essere davvero grave allora, anche se a livello mediatico siamo in realtà in una sorta di fase 2, che consiste nel minimizzare e normalizzare una situazione che rischia di avere pesanti conseguenze, in buona parte dovute alla fase 1 di assoluto allarme e caratterizzata da toni sensazionalistici e apocalittici. Ma ripeto, non voglio parlare della questione sanitaria in sé, quanto piuttosto delle sue implicazioni socioeconomiche e politiche (vedere ad esempio questo lucidissimo comunicato dei centri sociali del NordEst). Questo dovrebbe essere l’argomento principale sulla bocca di tutti, e per fortuna non è obbligatorio essere esperti per avere una propria idea in merito (e anzi guai a delegare tutto agli esperti, se i problemi sono “tecnici”, le soluzioni sono sempre politiche, con buona pace dei nedestrinesinistri).

elefanteTorna in mente anche il necessario insegnamento di Lakoff sui frame. Ho letto molto circa le conseguenze della diffusione del virus alle nostre latitudini, e quel che si riaffaccia continuamente è il bisogno di farne discorso politico, quasi che da ciò che accade possa nascere un’opportunità di riappropriarsi del discorso politico e sociale. D’altronde come dice il mio amico Pietro si tratta di un oggetto culturale e politico. E se è vero che esagera Agamben nel definire immotivata l’emergenza, è anche vero che lo stato d’eccezione è un qualcosa che è sempre più presente e anche in questa occasione si può ben cogliere. E allora ben vengano le analisi che intendono sviscerare non tanto le intenzioni quanto gli effetti, quelli sì importanti per le ricadute sul quotidiano di tutti noi, come quelle svolte in questi giorni dai Wu Ming, qui e qui e sapientemente arricchite dal sempre attento commentarium dei giapsters. Ben venga anche il fermarsi a riflettere sul come si fa analisi e quanto sia importante non soffermarsi sulla critica negativa pura, come fa bene Davide Grasso su minima&moralia con particolare riferimento ad Agamben.  Non si tratta dunque di schierarsi, bisogna rigettare i due frame uguali e contrari che si sostengono mutualmente, quello dell’emergenza assoluta e quello “complottista” della minimizzazione. Dal punto di vista sanitario e medico per chiunque voglia accertarsene è evidente che non bisogna sottovalutare ciò che sta accadendo e i possibili scenari futuri. Occorre invece prendere atto da subito che la riflessione debba spostarsi sulla reale tutela della salute e quindi non può che partire dal necessario potenziamento del sistema sanitario nazionale, e dalla sua riunificazione contro i numerosi tentativi di regionalizzazione. Si deve difendere la sanità pubblica non per partito preso ma perché niente di meglio dell’evidenza data da questo genere di accadimento dimostra quanto sia insensato affidare a chi rincorre i profitti un bene comune come la salute. Questo significa anche tutelare i lavoratori della sanità, ricordarsi ad esempio che hanno un contratto scaduto da 18 mesi. Nel frattempo nel criticare le ordinanze emesse da governo, governatori regionali e sindaci per la loro variabilità, incoerenza e spesso contradditorietà, bisogna sottolineare come chiudere settorialmente solo le istituzioni e gli eventi culturali qualsiasi sia la motivazione intrinseca la prima banale conseguenza è la solita confessione: che la cultura è sacrificabile. Anche la chiusura di asili e scuole è oggetto di dibattito, ma prima ancora di pensare se sia giusto o sbagliato, si è discusso se ciò sia affordabile dalle famiglie che magari non hanno alternative? E i lavoratori precari e meno garantiti che stanno rischiando o direttamente perdendo il posto di lavoro a causa delle chiusure improvvisate? Tutto questo ci dice che c’è un conflitto latente pronto a scoppiare e che andrebbe reso esplicito, spiegato a noi stessi e a chi ci circonda, perché non viviamo su Marte, ma magari vicino ad una coppia di genitori lavoratori che con le scuole chiuse non sanno a chi lasciare i figli e se si assentano da lavoro rischiano di essere licenziati o che non gli venga rinnovato il contratto. Siamo immersi nel realismo capitalista, e proprio un giapster nel secondo dei post linkati sopra cita Fisher:

“La lunga e oscura notte della fine della storia deve essere considerata come un’enorme opportunità. La pervasività molto opprimente del realismo capitalista significa che anche i barlumi di possibilità politiche ed economiche alternative possono avere un grande effetto di impatto sproporzionato. Il più piccolo evento può aprire un buco nella tenda grigia della reazione che ha segnato gli orizzonti delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, all’improvviso tutto è nuovamente possibile.”

E infine si può e si deve parlare della normalizzazione delle misure eccezionali restrittive della libertà: com’è possibile che ci si possa ammassare nei centri commerciali magari per fare incetta di prodotti igienizzanti spinti dal terrorismo mediatico e poi vengano vietate le assemblee sindacali? L’emergenza, se tale, non deve derogare ai princìpi se non per lo stretto necessario, e una tantum, mentre non è peregrino chi paragona le misure adottate in questo frangente con quelle adottate sull’ondata emotiva indotta dal terrorismo (post 11 settembre e successivo) e progressivamente normalizzate.

Al momento il frame dominante è che bisogna ripartire altrimenti le conseguenze sull’economia (già fragile e prossima ad una recessione se possibile più grave di quella del 2008*) saranno devastanti. Dopo averci spaventato a morte con dirette h24 dalle zone rosse, senza minimamente preoccuparsi dell’espressione, che a me mette i brividi almeno dal 2001, dopo l’hype mediatico ora, anzi già da qualche giorno è arrivato il contro ordine, e pure i titoli di Libero, nella loro bestialità tra le migliori cartine tornasole del livello dei media mainstream, si sono ridimensionati. Quello che noi dobbiamo fare invece è rifiutare la presunta normalità e rovesciare il frame: ci vogliono far credere che sia normale socializzare le perdite e privatizzare i profitti, e anche questa emergenza la pagheranno i più deboli. Questo va denunciato e combattutto.

*A questo proposito, quando arriverà la crisi, perché è questione di tempo, scommetto che si farà a gara per dare la colpa all’eccezionalità del virus, mentre sarà nostro compito dimostrare che al massimo quello ha accelerato un processo che era già in corso, come una pallina che scivola su un piano inclinato.

Avrei dovuto farlo prima… o del perché esco da Facebook

Negli ultimi anni ho impiegato o forse perso un imprecisato numero di ore sui social network, ed in particolare su Facebook. Mi sono iscritta lì non durante ma dopo l’ondata che ha reso popolare il social nella provincialissima Italia, un po’ spinta da chi c’era entrato, un po’ per vedere l’effetto che faceva (“cosa sarà mai sto Facebook”), anche se dei problemi intrinseci a Facebook ne ho letto sempre, anche prima di entrarci, e si sono sicuramente ampliati nel corso degli anni. Ero già da poco dentro Twitter, che ho sempre sbandierato come social “migliore”, anche se la sua facebookizzazione ormai è risalente nel tempo. Non è da poco che sento invece una crescente insofferenza nel mio stare in rete. Ho sempre seguito una serie di blog e ho continuato a farlo grazie a Feedly anche nella morìa generale codeterminata forse dall’esplosione dei social, ma il tempo che mi risucchiano Facebook, Twitter ed in misura minore Instagram mi pesa sempre di più. Meditavo quindi di ridare spazio ad altro, ho ripreso già da un po’ a scrivere su questo blog cercando di rimanere costante per gli stessi motivi e spero di liberare altro tempo da dedicare a letture e scritture. Mi manca sempre l’era dei forum grazie alla quale sono cresciuta anche politicamente e in rete, e questo vuoto i social network non l’hanno affatto colmato, al più l’hanno ingigantito, perché discutere su queste piattaforme è deleterio se non impossibile. Insomma, aspettavo una spinta per fare finalmente il gesto decisivo, e finalmente è arrivata con il duplice post dei Wu Ming (qui la seconda parte, in cui è linkata anche la prima; consiglio sicuramente di leggere anche i commenti, come sempre necessari). Ho letto con interesse anche il personale contributo di Yamunin, e spero di poterne leggere altri su altri blog. Ho iniziato la procedura di cancellazione, dicevo. Il primo passo è la richiesta di backup di tutto ciò che di mio c’è sulla piattaforma. Sinceramente il colpo di spugna non mi si addice, e allora aspetto che la copia di tutti i contenuti sia completata per procedere alla loro cancellazione da fb e alla susseguente disattivazione dell’account. Se Facebook come fonte di informazione non l’ho mai usato e per questo non mi mancherà, diverso è il discorso su Twitter, per il quale non nutro le stesse riserve nonostante sia evidente come sia peggiorato rispetto a quando feci l’account (dieci anni e spicci fa). Il fattore tempo da liberare non è l’unica determinante: sicuramente le critiche a facebook sono molto più risalenti, nel senso che è la sua natura affatto neutra ad essere il problema per cui un uso critico e militante viene difficile. La mia recente decisione di impegnarmi in prima persona politicamente per un attimo è stato quasi un alibi per mantenere attivo il profilo, solo per condividere eventi/notizie della militanza, ma mi son detta che suona come una stronzata perché so benissimo che continuerò ad usarlo come ora, tra meme e immersioni inutili e perditempo, qualche condivisione di link poco efficace e nessuna reale incidenza sulla realtà materiale che sarebbe invece la base da cui partire. Per cui, seguendo anche Wu Ming 1, da marxista e anticapitalista cerco di essere conseguente e me ne tiro fuori. La lotta si fa in strada:

io continuo a pensare che, da un lato, stare su FB senza criticare lo strumento – come fanno molti che pure sono anticapitalisti – sia una contraddizione non da poco, e dall’altro lato, che una critica a FB espressa senza mettere in questione il frame fornito da FB e aderendo alla “sintassi” di FB (scrivere una “nota” anziché un articolo da un’altra parte) sia intrinsecamente “autoneutralizzante”. (WM1 dai commenti in calce alla seconda parte del post linkato sopra)

La lotta si fa in strada, dicevo, ma anche nella rete, più generale. L’auspicio di una federazione di blog decentralizzati è interessante. Io tecnicamente sono una capra per cui dopo essermi iscritta a Mastodon ed in particolare all’istanza bida ci sono stata dentro pochissimo ma spero di rimediare e perché no, ridurre il tempo dedicato a Twitter in suo favore. Tutto questo discorso è legato ad uno più generale sul capitalismo della sorveglianza (qui e nella mia ormai lunghissima coda di lettura) e allo strapotere delle piattaforme, per cui ho già smesso di utilizzare Chrome da desktop e da mobile e spero di riuscire col tempo a liberarmi di Google e la sua galassia di servizi invasivi. Per le ricerche uso Duckduckgo e va bene, Il discorso ricomprenderebbe anche WordPress ma chiedo lumi ai più esperti perché già ho fatto la migrazione del blog una volta e non saprei proprio a quale servizio rivolgermi. Un altro modo di stare in rete esiste ed è già fattibile, bisogna impegnarsi in prima persona ma ciò è vero per ogni forma di lotta e quindi non dovrebbe essere una novità. Che il 2020 possa essere di liberazione!

Ps. ho provato a disattivare i bottoni dei social, per condividere ci sono modi più lenti ma più meditati. Come spiegano ancora i Wu Ming: “Già la loro mera presenza su una pagina ciuccia dati a chi la visita, a vantaggio dei rispettivi social media. Spesso un bottone social installa un cookie che ti segue ovunque e ti traccia per conto di Facebook o chi altri. Una delle possibilità è di metterli inattivi di default: per condividere un post su un social, l’utente deve prima attivare il bottone, come spiegato qui. Oppure copia l’URL e amen :-)”

La macchina del vento

La macchina del ventoLa macchina del vento è ambientato durante il Ventennio, prima e nel corso della seconda guerra mondiale e quindi parla di un passato che si avverte a noi vicino, ancora vivo, e racconta quegli anni da un punto di vista forse laterale ma nondimeno interessante: i confinati di Ventotene, prigionieri politici di diversi orientamenti, a semplice dimostrazione dell’eterogeneità della società italiana antifascista, nonostante il fascismo. Il romanzo è ovviamente finzione, ma è accurato nei dettagli e nel riquadro generale, e “nonostante” richiami mitologici e fantastici ben inseriti nella trama la cornice storica risulta pregevole. La macchina del vento parla anche del presente; più volte durante la lettura il racconto del passato riecheggia il nostro presente, a ricordarci che la storia non si archivia ma va sempre tenuta viva, ed è vivissimo in alcuni tratti il fascismo, seppure l’esperienza del fascismo non possa naturalmente riproporsi tal quale oggi. Il tempo è chiave di lettura e contemporaneamente protagonista del romanzo, e dopo passato e presente incontriamo il futuro, quello immaginato/che si affaccia sul racconto e quello che attende noi. Nella brace le ceneri non sono mai completamente spente e improvvisamente si rianima il fuoco, alimentando una resistenza sopita ma mai spenta del tutto: lo scopre Pertini trovando i vecchi compagni a Savona in occasione della breve visita alla madre, e lo scopriamo noi con lui speranzosi, perché così possiamo ricordare che la lotta può e deve continuare. I confinati non sono stati semplici vittime del regime (non hanno neanche fatto la villeggiatura, ed è bene ricordarlo di questi tempi) ma hanno rappresentato anche elementi necessari della Resistenza, che forse si dovrebbe pure raccontare.

(noi siamo storie)

(siamo ricordi tramandati)

si legge nelle ultime pagine del libro, e le storie sono necessarie, anche loro. E di storie come questa ne abbiamo bisogno.

1 ottobre tra grandi opere trivellate e resistenze mai dome

Sei anni dall’alluvione. Anzi no, sei anni di alluvioni. Come una ruota che gira e prima o poi tutti tocca. Non c’è caso e non c’è destino però, ci sono precise responsabilità, sistemiche, diffuse e concentrate. Ignavia, inerzia e dolo.

Intanto la Sicilia è l’unica regione tra quelle interessate a non mobilitarsi contro le trivellazioni. Crocetta ha i suoi interessi tra Eni e Gela. Intanto la centrale Edipower di S. Filippo del Mela dovrebbe diventare un inceneritore (le espressioni tipo ‘termovalorizzatore’ lasciamole a chi piace l’ombrello di Altan).

Intanto torna in primo piano il discorso del Ponte sullo Stretto, rivendicato da Alfano nonostante la freddezza di Del Rio. Ma è più preoccupante il fatto che ancora troppa gente ritenga positivo e auspicabile, addirittura necessaria questa Grande Opera nonostante le evidenze contrarie, nonostante l’infinita quantità di soldi pubblici gettati via negli ultimi decenni per compilare solo inutili faldoni che giacciono negli uffici pubblici.

C’è uno svincolo autostradale (Giostra) aperto solo a metà, ci sono strade e viadotti che stanno in piedi per miracolo, gallerie con un meraviglioso quanto raro fenomeno (poco) naturale di pioggia al coperto. Col ponte invece…

Nel frattempo, nell’agonizzante quotidiano le resistenze sono sempre più messe a dura prova. Penso a quanto dice Wu Ming 1 rispondendo ad una cronista di Repubblica: a Messina due attivisti del Teatro Pinelli hanno subito una condanna vergognosa nell’indifferenza dei più:

TEATRO PINELLI OCCUPATO
Comunicato stampa 25 settembre 2015

Ieri, 24 settembre 2015, Irene e Sergio, i due attivisti arrestati per avere espresso solidarietà a una senza casa accampatasi in un’aiuola posta nei pressi del Tribunale e del Rettorato, sono stati condannati rispettivamente a 6 e 10 mesi di detenzione. La sentenza giunge inaspettata, specie dopo la visione completa dei video forniti da emittenti locali e le testimonianze, favorevoli agli imputati, da parte di carabinieri presenti all’azione dimostrativa delle settimane scorse. Testimonianze e filmati privi di tagli, che mostrano una realtà dei fatti ben diversa da quella suggerita nel corso di una campagna politica e mediatica volta a descrivere i suddetti attivisti come violenti. Una realtà fattuale tanto diversa da costringere il Pubblico Ministero a fare decadere tre accuse su quattro e chiedere che gli imputati venissero condannati, unicamente per “resistenza psicologica”, a 4 mesi di detenzione.

I filmati esibiti nel corso del processo verranno messi a disposizione dell’opinione pubblica non appena sarà tecnicamente possibile. Crediamo che la loro visione conforterà la nostra impressione che la sentenza di ieri sia molto poco giuridica – legata cioè a una obiettiva analisi dei fatti materiali – e decisamente politica. È infatti evidente che rinunciare a una condanna esemplare degli attivisti – pur in presenza di prove inoppugnabili della loro personale innocenza – avrebbe significato porre automaticamente sotto accusa i vigili urbani e quel complesso politico che si è mobilitato a loro difesa. Stabilire l’innocenza degli imputati, sia pure sulla base di quelle prove incontestabili, avrebbe comportato l’implicita assunzione da parte del potere giudiziario di un ruolo extra-giuridico, che avrebbe finito con lo screditare la gran parte delle forze politiche in un momento così cruciale della vita politica cittadina. Infine l’assoluzione degli imputati avrebbe implicato un distanziamento del potere giudiziario locale da quel nuovo orientamento che, da nord a sud, criminalizza sistematicamente il dissenso e i movimenti sociali nuovi e vecchi, organizzati e spontanei, frutto della crescente diffusione di nuove povertà e dei tagli alla spesa pubblica in materia di alloggi, sanità, lavoro e cura dei territori .

Crediamo che la sentenza di ieri sia estremamente preoccupante, non solo perché contraria alla realtà sensibile (quella che ognuno potrà presto vedere coi propri occhi sui social network), ma perché conferma il modo in cui la tendenza ad affrontare le questioni sociali per via penale sia ormai una pratica che caratterizza le istituzioni nel loro complesso e come ciò abbia fatto saltare, forse definitivamente, il principio di divisione dei poteri e i classici meccanismi di garanzia dei cittadini.

In questo quadro, la nostra fiducia nei confronti dell’autorità pubblica e delle istituzioni non può che abbassarsi ulteriormente e confermare la nostra determinazione a continuare il nostro impegno con le nostre tradizionali forme. La lotta continua perciò dentro e fuori i tribunali.

Irene e Sergio liberi subito!

Un chiarissimo commento di Pietro Saitta in merito

Un tempo si sarebbe detto che “la giustizia borghese non si fa”. 10 mesi per Sergio ai domiciliari, 6 per Irene. Straordinario se si considera che il PM aveva chiesto la decadenza di tutte le accuse, tranne quella di “resistenza psicologica”, e 4 mesi di reclusione (con carabinieri che testimoniano a favore degli imputati e video che dimostrano che non era accaduto pressoché nulla di quanto dichiarato). Tutti quelli in aula, insomma, davano per scontata la piena assoluzione e, invece, arriva questa mazzata. Un esito che, chiaramente, non ha nulla a che fare coi fatti, ma che svela tutta la rilevanza politica della vicenda. Ora e sempre, la lotta continua. Irene e Sergio liberi subito!

Bonus track o ghiottonerie:

Mentre riappare Luther Blissett, qualcuno sta lavorando ad un radioromanzo di Q. 

Metereopatie

Sogno un notiziario che cominci cosi`: “la stagione e` calda e` vero, ma nei prossimi mesi questo caldo aumentera`. Stante la situazione attuale, e` previsto un autunno caldissimo e un 2012 ancora piu` caldo. Le tensioni sociali sono a livelli altissimi”

E invece tutti i notiziari sono impegnati a dirci quanto caldo fa solo a livello di temperature, come se noi si fosse a gennaio ed improvvisamente fosse arrivata un’ondata anomala di calore. Ovviamente a luglio e` normale che ci siano 30 e piu` gradi, eppure tutti a lamentarci, anche su twitter ieri #caldo era trending topic e @cartaorg ipotizzava una presa dell’hashtag come nel caso di nervi #saldi. [A proposito di prese, oggi e` il 14 luglio. Auguri a tutti!]

La situazione economica e` bollente, la situazione sociale di conseguenza e` scottante ogni giorno di piu`, e invece si discute di afa. Le similitudini tra tempo meteorologico ed economia sono parecchie, e forse non sono casuali, come osserva Tonino Perna nel suo ultimo libro.

E` bene ricordare come Lorsignori facciano tutto scientemente, perche` la dottrina della shock economy e` un metodo “geniale” dal loro punto di vista per imporre il loro sistema unico, come ricorda bene @Adrianaaaaaaaa (spero di aver contato bene le a XD) nel suo ultimo post.

Eppure si parla di caldo torrido come se fosse la notizia. Un po` di timori per il venerdi` nero in borsa (in Italia ma non solo) e poi tutti a rallegrarci perche` il peggio e` passato. In realta’ il bello (o ballo) deve ancora venire, anzi sta proprio arrivando. A questo proposito e` interessante l’ultimo commento nel post appena citato su Giap, di un ragazzo greco.

Qualche ovvieta` che sfugge ai piu` puo` essere letta nella contromanovra proposta da Sbilanciamoci.

Intanto c’e` chi discetta di bassa politica, ma in realta` non so se questo governo cadra`, e soprattutto non credo affatto che cio` possa provocare un miglioramento. C’e` il fatto che Mr B. non e` il piu` adatto per eseguire gli ordini superiori di Europa e FMI e anzi temo che riesumeranno Prodi perche` e` molto bravo nel sistemare i conti facendoci pagare il conto.

Ma noi non stiamo in piazza come in Grecia o in Spagna. Fa troppo caldo e al limite potremmo fare qualche raduno al mare o in nottata, sperando in un fresco venticello. Quello che pare abbia iniziato a soffiare con amministrative e referendum, ma sembra sia passato un secolo da allora…

Ps. in tutto questo e` stato approvato ieri alla camera il disegno di legge sul biotestamento. Ieri ho letto un inquietante articolo sulla Stampa con ancor piu` inquietante foto della Binetti. E` il caso di ricordare la bella e rabbiosa poesia di WM1 sull’istituzione-branco, gia` segnalata su Twitter.

NB. Tra pochi giorni ricorre esattamente il decennale di Genova. Io ricordo (e consiglio di seguire @IoRicordoGenova su twitter). Tutto si tiene.