Epidemie e controllo sociale

miconiIl libro di Andrea Miconi, prima citato en passant e poi recensito dai Wu Ming, è una lettura agile e importante in questo frangente. Scorrendo le pagine infatti si avverte infatti l’urgenza di scrivere in medias res anche se, come dice lo stesso autore, sarà necessario poi (ri)aprire il discorso in un secondo momento, o forse è ancora meglio lasciarlo aperto ed ampliarlo, ed è per questo motivo che cerco qui di trattare alcuni dei nodi principali del testo, che mi sembra importante far riverberare. Il testo è stato scritto prima dell’inizio della seconda ondata, pubblicato a giugno, ma è ancora pienamente attuale. L’autore stesso lo definisce un instant book ma in realtà non ha nulla da invidiare a saggi accademici di mole ben più corposa quanto a densità.

1. Emergenza e diritti

Innanzitutto è importante denunciare il rapporto mutualmente esclusivo tra emergenza e diritti che molti hanno dato per scontato, mentre “un’emergenza tragica, colma di angoscia e dolore, non giustifica la privazione dei diritti, e rende non meno ma più necessario riflettere sul futuro della società di cui siamo parte”. Sul tema Miconi dissente sia dall’uso del concetto di stato di eccezione agambeniano, perché  nel nostro caso, sostiene, il governo non sovrastima ma anzi sottovaluta i pericoli in corso, almeno in una prima fase, per poi tentare di rimediare in maniera draconiana stravolgendo la propria linea e passando da un eccesso a un altro, sia dalla posizione di Dal Lago che parla di privazione “di qualche libertà” piuttosto che “delle libertà” come se questo fosse più tollerabile. Intanto le privazioni che abbiamo subìto non erano certo poche o residuali, e poi, aggiunge, “è questo che fanno i regimi autoritari, privare i cittadini di alcuni diritti, ma mai di tutti”. Dal Lago dice anche che si tratta di una tendenza generale, che non riguarda solo l’Italia, ma secondo Miconi un confronto va fatto coi paesi europei a cui siamo più vicini per una serie di ragioni e certamente non solo per motivi geografici, e tale comparazione sarebbe comunque impietosa: “in gran parte dell’Unione Europea, la chiusura delle attività e dei locali pubblici non si è accompagnata alla misura degli arresti domiciliari e i cittadini hanno mantenuto – e ci mancherebbe altro – la libertà di uscire di casa senza doversi giustificare“. Inoltre, “i paesi che hanno imposto misure più rigide sono quelli che mostrano, contro-intuitivamente, i numeri peggiori e non quelli migliori”. Ciò non significa che non si dovesse fare nulla, ma che “non c’è nessuna relazione dimostrabile” tra la rigidità delle misur adottate e il numero delle vittime. Il modello italiano è stato a lungo sbandierato, per dimostrare in realtà presto di essere tutt’altro che di successo. Uno dei fiori all’occhiello di tale modello è stata di certo l’autocertificazione, di cui paventavo il

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ritorno nel post appena citato. Per fortuna ancora siamo esenti al momento da questo “rituale degradante”, un’assurdità giuridica e logica per cui la pubblica sicurezza poteva contestare arbitrariamente le motivazioni che i cittadini dichiaravano per uscire di casa (!): “se è la pubblica sicurezza a decidere le regole – anziché verificarne la violazione – significa che una soglia pericolosissima è stata varcata. Significa che lo Stato di Diritto, per qualche tempo, è diventato Stato di Polizia”.

2. #iorestoacasa

Lo slogan #iorestoacasa ha iniziato a circolare prima delle chiusure reali, a smentire la retorica degli italiani indisciplinati. Infatti anche i dati di geolocalizzazione confermano un notevole rispetto delle restrizioni imposte: “i dati forniti da Apple e Google (…) hanno misurato in Italia una riduzione degli spostamenti simile, e in certi casi maggiore, rispetto agli altri paesi europei in lockdown“. Il punto comunque non è neanche se fosse necessario o meno restare a casa, quanto la retorica su quanto fosse bello farlo, mentre “restare chiusi in casa per mesi non è né bello né brutto, è orribile“.

È un’agonia continua, per le categorie più esposte, e in termini variabili per tutti gli altri. (…) in un diluvio di pareri di scienziati (…) né il Governo né i media  [hanno] mai consultato chi poteva dire qualcosa, in termini scientifici, sul costo umano della reclusione.

E qui entra un altro tema importante, ovvero il rapporto tra lo Stato ed i cittadini, che in Italia non è dei migliori, visto l’atteggiamento paternalista che purtroppo permea la gran parte delle azioni di governo a tutti i livelli: “Questo è mancato, tra le tante cose, uno Stato capace di trattare i cittadini da adulti“. Sull’essere considerati bambini Miconi aggiunge: “questa è la ferita peggiore che ci porteremo dietro, anche perché – per quel miracolo sociologico che si chiama self-fulfilling prophecy, l’auto-adempimento delle profezie, se i cittadini sono trattati come bambini, alcuni di loro finiranno per comportarsi come tali”. Ed è importante sottolineare che

non si tratta di un problema personale (…) ma di un tema sociale e politico a tutto tondo: l’atteggiamento di uno Stato che tratta i cittadini come bambini – che non sanno limitarsi e a cui è inutile spiegare le cose, perché non capirebbero – se non da potenziali criminali, in base ad una inammissibile presunzione di colpevolezza per cui si assume che le persone, se lasciate libere, farebbero qualcosa di male.

Col decreto del 26 aprile è iniziata invece la surreale discussione sui “congiunti“, a conferma di una visione patriarcale “che sta riportando l’economia morale del paese indietro di decenni”. L’autore nota tra l’altro che la maggior parte di chi è rientrato a lavoro sono uomini, e questo dato è confermato anche dalle statistiche sull’occupazione femminile che dopo il lockdown hanno generato dati se possibile più drammatici rispetto ad una situazione già desolante in partenza.

Miconi suggerisce inoltre che i germi del rabbioso c’è troppa gente in giro fossero inclusi già nello slogan #iorestoacasa. Ed è un tema terribilmente attuale, viste le infinite polemiche sulle persone che affollano le vie dello shopping dopo essere state spinte al consumo da bonus e altre trovate come il cashback, con la solita torsione già vista in primavera per cui si sviano sui cittadini le colpe di una classe dirigente che si dimostra ancora una volta inadeguata e colpevole.

3. Populismo rovesciato e media

Dopo aver discusso questi aspetti, l’autore ci rivolge una domanda tutt’altro che scontata a cui cerca di rispondere in maniera analitica. La premessa è che viviamo in un paese di pochissimi lettori in cui è diventato un bestseller un libro che mette alla gogna la classe politica e in cui la disaffezione verso il ceto dirigente è crescente ormai da diversi decenni. E allora,

Come si spiega che proprio il Paese dell’odio conclamato verso la Casta abbia finito per reggere il gioco alla classe dirigente, liberandola di ogni responsabilità, e scatendando la caccia selvaggia all’indisciplinato del piano di sopra?

Miconi schematizza in quattro punti le caratteristiche che accomunano la retorica classica del populismo alla volontà di colpevolizzazione dell’altro:

  • attenzione all’emotività:
  • messa dei propri pensieri al servizio delll’uomo al comando;
  • necessità di dividere il mondo in due fazioni contrapposte;
  • difficoltà ad accettare le differenze, concepire il popolo come unità.

Questi fattori quindi permettono ad una certa mentalità populista di riversarsi contro il basso, cosa che in effetti è comune a tutti i populismi per i quali i nemici in alto sono sempre astratti, mentre i subalterni sono tremendamente reali come nemici e quindi individuabili e attaccabili.

Essendo sociologo dei media, l’autore si concentra inoltre sul ruolo e sulle colpe di questi ultimi, che spesso hanno fatto da megafono e hanno spettacolarizzato la presunta indisciplina degli italiani, riprendendo inseguimenti con gli elicotteri, con la quanto meno censurabile complicità delle forze dell’ordine, o rammaricandosi in diretta di non trovare assembramenti da documentare, come in un’ormai celebre esternazione di un’inviata che non credo di dover definire gaffe, quanto invece una cristallina dichiarazione d’intenti del giornalismo nostrano: “lo scopo dei media è stato quello di dimostrare l’inciviltà dei cittadini”. Stesso obiettivo raggiunto dalle fotografie di strade apparentemente affollate a causa di inquadratura studiate ad arte per schiacciare la prospettiva e non rendere la distanza reale tra le persone. E se non fosse evidente, questa non è storia passata ma la viviamo tutti i giorni nuovamente ora che a ridosso delle festività, essendo state insufficienti le misure prese dal governo, si prevede una nuova stretta e ancora una volta i media faranno il loro lavoro di colpevolizzare i cittadini per giustificare le nuove disposizioni, senza minimamente mettere in discussione i manovratori.

4. L’App Immuni

Alcuni dei temi analizzati preventivamente dallo scrittore possono essere sottoposti col senno di poi a verifica: è questo il caso dell’App Immuni, sulla quale si ribadiscono una serie di problematiche, a partire dalla considerazione che il tracciamento da solo, senza adeguati servizi territoriali di screening, sarebbe comunque stato insufficiente, per non dire poi che se l’App non è in possesso di una massa critica individuata nel 60% della popolazione, non serve a nulla. Ad ogni modo il tracciamento resterà come precedente e ancora più grave è un’altra funzione di Immuni, cioè quella di creare una cartella clinica elettronica, ovvero una banca-dati delicatissima per la qualità e la quantità di dati sensibili che raccoglie, che ovviamente non ha alcuna rilevanza rispetto al contenimento della pandemia, e ci sarebbe da fare diverse domande in proposito. Ma in conclusione oggi, a dicembre, a che punto siamo? Un articolo di Fanpage del 12 dicembre ci informa che siamo arrivati a 10 milioni di download, una soglia simbolica quanto inutile, visto che mancano all’appello ancora 26 milioni di persone per raggiungere la massa critica indispensabile a rendere efficace l’App e infatti per queste ed altre ragioni, tra cui la mancanza di un’adeguata rete territoriale, il tracciamento è saltato da un pezzo.

5. Qualche considerazione finale

Il testo di Miconi è come ho detto breve ma davvero ricco di elementi importanti e attuali perché analizza alcune questioni strutturali di cui bisogna tenere conto se si vuole comprendere e anche resistere alla presente temperie. Forse la luna di miele tra governo e opinione pubblica è finita e qualche sintomo si avverte captando casualmente le conversazioni, come ieri sul treno quando ho registrato queste testuali parole in polemica coi rumors sulle nuove chiusure per le festività: “non puoi dire alle persone ‘stai in casa perché io sono un coglione’!” Nella narrazione mainstream intanto c’è un enorme rimosso che riguarda il diverso trattamento riservato alle aziende rispetto ai cittadini: “i primi chiusi in casa e trattati da criminali; i secondi, beneficiari di tutte le deroghe del mondo, inclusa l’apertura di 155.000 fabbriche lombarde – centocinquantacinquemila – durante il picco epidemico”. Del resto i primi lavoratori mandati al macello, allo sbaraglio senza protezione adeguata sono stati gli operatori sanitari, mentre venivano vacuamente acclamati come eroi:

Mentre la classe dirigente ne combinava di tutti i colori, il Paese è stato tenuto in vita dalla sua base di lavoratori malpagati e dimenticati. Infermiere, medici precari, specializzandi, rider, commessi, trasportatori, autisti, personale di pulizia mandato nei reparti Covid per sette euro l’ora: se davvero l’emergenza ci ha insegnato qualcosa, lo capiremo, molto rapidamente, dal modo in cui verranno trattate queste categorie, incluso chi si è impoverito o ha perso il lavoro.

In chiusura vorrei sottolineare che Miconi per due volte ribadisce un dato tanto vero quanto rimosso sul rapporto – alquanto debole, di sicuro non necessario – tra capitalismo e libertà:

Non c’è dubbio che l’emergenza abbia anche portato alla luce problemi strutturali del nostro modello di sviluppo, e mostrato la faccia feroce della società in cui viviamo (…) perché il capitalismo, a dispetto di alcune interpretazioni letterarie, può prosperare facendo a meno delle libertà individuali.

Nelle conclusioni torna proprio su questo punto mentre fa notare che se non fosse per la necessità (del sistema) del consumo nessuno si sarebbe preoccupato di tirarci fuori di casa:

Assistiamo così ad un perverso incontro tra due logiche di dominio, quella economica del profitto e quella muscolare dello stato. Una sorta di duplice sovranità (…) un assemblaggio tra due strutture, per usare un termine di Saskia Sassen, che forse sono meno nemiche di quanto si creda. Specie se ammettiamo che il capitalismo, con buona pace della retorica egemone, non ha affatto bisogno delle libertà individuali per evolvere e prosperare.

Avevamo ragione noi

I’m breaking in, shaping up, then checking out on the prison bus
This is it, the apocalypse
Whoa oh

I’m waking up, I feel it in my bones
Enough to make my system blow
Welcome to the new age, to the new age
Welcome to the new age, to the new age

(Radioactive, Imagine Dragons)

Dopo la sovraesposizione dei giorni scorsi, sono arrivata alla fase di riflusso. Mi riferisco all’immersione quasi costante nella lettura di approfondimenti, analisi e narrazioni delle conseguenze sociali, economiche e politiche dell’attuale emergenza. Ho accuratamente evitato il frame dominante, la conta dei morti, la retorica mainstream dell’#andràtuttobene e del #iorestoacasa, per la mia salute mentale, e mi ha fatto bene concentrarmi sul resto. Però sono arrivata ad un punto critico. Le giornate passano, l’emergenza resta e ho bisogno di spostare il focus perché la routine quotidiana non può proseguire a questi ritmi. Ho intenzione di proseguire la lettura quotidiana dei blog tramite Feedly, che è già un bell’impegno, rallentare le incursioni su Twitter e usare Mastodon in maniera parsimoniosa, e possibilmente eludendo l’argomento unico. Voglio riprendere a leggere con costanza altro, libri che parlino d’altro (anche se è difficile, nel libro della Klein del 2017 che sto leggendo ho trovato diversi riferimenti all’oggi, ma è fisiologico in certa saggistica). Più narrativa allora, e più attività fisica: ho già iniziato un programma di trenta minuti al giorno, e mi fa stare meglio. Appena finisce il colpo di coda dell’inverno devo dedicarmi alle piante, quelle che stanno fiorendo, le grasse che riprendono la crescita, le piante verdi che sono state pure un po’ trascurate. L’altro giorno pensavo che è un peccato non poter andare per vivai a cercare nuove inquiline, pazienza, non sono necessità. È necessità sicuramente occuparmi del nano, ancora è in una fase per cui non gli manca la routine scolastica, ma gli manca sicuramente uscire, cavoli gli manca la nonna che abita sotto e che vede solo tramite video. L’altro giorno al mio ennesimo diniego mi ha risposto “ma io non ho il virus”. Ecco che forse ha ragione chi dice che saranno loro a socializzare la nostra rabbia, anche se spero che siamo noi stessi perché tempo non ne abbiamo più e non sarebbe neanche giusto. Nell’attesa di capire come e in che forma dargli l’ora d’aria voglio organizzare delle attività un minimo strutturate durante le lunghe giornate. E vorrei prendere anche quaderni e colori anche se non ho capito se è possibile trovarli/acquistarli. Il grande rimosso dei bambini, dimenticati dalla legge e dagli uomini, è davvero uno dei punti focali di questa follia chiamata emergenza.

Per fortuna ho la compagnia in casa e qualche hobby che mi torna utile, penso però che c’è gente meno fortunata di me e vorrei poter fare qualcosa. Sicuramente continuo la militanza, il momento è cruciale e si sta dimostrando quello che già sapevo (avevamo ragione noi?) mentre si festeggiano i rialzi in borsa dopo alcune misure prese dalla Fed, e mentre il governo fa l’ennesimo decreto spostando ancora il focus dall’emergenza dei lavoratori, quegli irresponsabili che vorrebbero scioperare per dire semplicemente che non sono carne da macello, che la loro vita vale più del profitto. Stolti!

Avevate ragione voi

Dietro le maschere antigas

Voi

Dietro le vostre barricate

Voi che già allora sapevate che oggi

Avreste avuto ragione voi

Mentre correvate indietro

Noi tutti quanti con le mani verso il cielo

Cercavamo solamente verità

Avevamo ragione noi

(Avevate ragione voi, Linea 77)

Resistere nell’emergenza, uscire coi corpi e con le menti

La necessità di scrivere in questo frangente è aumentata, moltiplicata dalle mille sollecitazioni neurali, più si ferma il corpo più la mente cammina, ed oltre al durante, al qui ed ora urgente e impellente, si viaggia fino ad un domani indefinito perché chissà quando riavremo una parvenza di normalità. Si ragiona quindi del dopo, in forme diverse, in forma di articolo come fa Francesco Costa su il Post, in forma di racconto come fa @MonsierEnRouge, ammettendo chiaramente che sei mesi fa (ma anche due) sarebbe stato fantascienza, e invece. C’è in parte un ripiegarsi in se stessi, comunque scoprendo la responsabilità perché come dice Pietro Saitta non si può prescindere dal sé. Ne risultano diari densi che non possiamo che condividere, ad esempio quello di @Yamunin, sono comunque tutte forme di resistenza all’emergenza, o meglio ai dispositivi che ci vengono imposti in suo nome.

Come sto trascorrendo le giornate, mi chiede una cara amica. Leggo, leggo tanto, dovrei leggere tante cose ma leggo soprattutto di questo eterno presente sospeso: necessità, ricerca di vie di fuga. Sto scrivendo col nano in braccio che mi tiene la penna. Mi riempie le giornate, questo è sicuro, vorrei riempire le sue: ho paura che si annoi. Stamattina abbiamo fatto di nuovo le bolle di sapone in balcone, fortuna che c’è il sole. Vorrei portarlo fuori a passeggiare, ne ha bisogno più di me che sono pantofolaia da sempre (anche se, il divieto crea ribelli, l’occasione fa l’uomo leader, no ladro, insomma…) So che non c’è un divieto di passeggiare ma so che meno ci muoviamo più sicuri siamo e mi sento bloccata. Nel weekend ho fatto uscire il consorte da solo, perché ne aveva sicuramente bisogno, al contrario di me. In settimana lavora comunque, e chissà quanto è sicuro in giro; quindi cerco i modi per farlo stare a casa in sicurezza, scioperi non se ne parla, il motto è ognuno per sé e neanche questa situazione assurda apre gli occhi né tanto meno il cuore, è tutto un si salvi chi può.

Se uscissi col nano per una sacrilega passeggiata avrei la sicura riprovazione, oltre i fermi rimproveri di gente più “sveglia” di me, anche se lo portassi a passeggiare in uno spazio aperto e vuoto, metti la spiaggia di ponente. Dovrò farlo. Quello che odio è dovermi scontrare con la presunzione autoritaria per cui l’invito a stare in casa è un obbligo inderogabile, come se non fosse necessità uscire di casa per respirare, guardare il mare, fare una passeggiata. E mentre cucino ho la fortuna di ascoltare la voce della compagna Filo e le sono grata. Se qualcosa di buono esce da questa crisi è il moltiplicarsi delle nostre voci, le analisi e e le riflessioni. Ancora una volta è imprescindibile Giap, dai consigli di resistenza all’emergenza, al primo dei due post di Wolf Bukowski, appena pubblicato, il cui lavoro sul decoro torna più che mai utile proprio adesso. Tutto questo sembra cozzare fortemente con la narrativa dominante, mi dicono che essendo fuori da Facebook non mi rendo conto dell’unanimità della retorica unitaria e persino patriottica, dettata dalla paura, da uno sconvolgimento del quotidiano di ognuno di noi che non ha precedenti, e forse è un bene per la mia sanità mentale. Continuo a preferire altre strade, ed è confortante sapere di non essere sola. Ascoltate ancora la compagna Filo, e la sua Cappuccetto Rosso ai tempi dell’emergenza, è necessario e anche bello.

Il coronavirus e noi

p-402-maschera_naso_scaramouche_ironNon mi piace scrivere dell’argomento del giorno perché è evidente che il cosa sia importante prima ancora del come e del perché; si tratta dell’annosa questione dell’agenda setting, che sovradetermina il resto. Tutto vorrei fare fuorché parlare del coronavirus, tema che ormai domina l’intero spettro informativo relegando ai margini tutto ciò che accade (ehi, il mondo non si ferma, nonostante tutto, al massimo si ferma Milano… frega ancora qualcosa del Rojava, ad esempio?), al punto che pure il calcio, argomento che normalmente almeno una volta a settimana da noi prende il sopravvento nel discorso pubblico, ne è fortemente condizionato con stop e rinvii. Dev’essere davvero grave allora, anche se a livello mediatico siamo in realtà in una sorta di fase 2, che consiste nel minimizzare e normalizzare una situazione che rischia di avere pesanti conseguenze, in buona parte dovute alla fase 1 di assoluto allarme e caratterizzata da toni sensazionalistici e apocalittici. Ma ripeto, non voglio parlare della questione sanitaria in sé, quanto piuttosto delle sue implicazioni socioeconomiche e politiche (vedere ad esempio questo lucidissimo comunicato dei centri sociali del NordEst). Questo dovrebbe essere l’argomento principale sulla bocca di tutti, e per fortuna non è obbligatorio essere esperti per avere una propria idea in merito (e anzi guai a delegare tutto agli esperti, se i problemi sono “tecnici”, le soluzioni sono sempre politiche, con buona pace dei nedestrinesinistri).

elefanteTorna in mente anche il necessario insegnamento di Lakoff sui frame. Ho letto molto circa le conseguenze della diffusione del virus alle nostre latitudini, e quel che si riaffaccia continuamente è il bisogno di farne discorso politico, quasi che da ciò che accade possa nascere un’opportunità di riappropriarsi del discorso politico e sociale. D’altronde come dice il mio amico Pietro si tratta di un oggetto culturale e politico. E se è vero che esagera Agamben nel definire immotivata l’emergenza, è anche vero che lo stato d’eccezione è un qualcosa che è sempre più presente e anche in questa occasione si può ben cogliere. E allora ben vengano le analisi che intendono sviscerare non tanto le intenzioni quanto gli effetti, quelli sì importanti per le ricadute sul quotidiano di tutti noi, come quelle svolte in questi giorni dai Wu Ming, qui e qui e sapientemente arricchite dal sempre attento commentarium dei giapsters. Ben venga anche il fermarsi a riflettere sul come si fa analisi e quanto sia importante non soffermarsi sulla critica negativa pura, come fa bene Davide Grasso su minima&moralia con particolare riferimento ad Agamben.  Non si tratta dunque di schierarsi, bisogna rigettare i due frame uguali e contrari che si sostengono mutualmente, quello dell’emergenza assoluta e quello “complottista” della minimizzazione. Dal punto di vista sanitario e medico per chiunque voglia accertarsene è evidente che non bisogna sottovalutare ciò che sta accadendo e i possibili scenari futuri. Occorre invece prendere atto da subito che la riflessione debba spostarsi sulla reale tutela della salute e quindi non può che partire dal necessario potenziamento del sistema sanitario nazionale, e dalla sua riunificazione contro i numerosi tentativi di regionalizzazione. Si deve difendere la sanità pubblica non per partito preso ma perché niente di meglio dell’evidenza data da questo genere di accadimento dimostra quanto sia insensato affidare a chi rincorre i profitti un bene comune come la salute. Questo significa anche tutelare i lavoratori della sanità, ricordarsi ad esempio che hanno un contratto scaduto da 18 mesi. Nel frattempo nel criticare le ordinanze emesse da governo, governatori regionali e sindaci per la loro variabilità, incoerenza e spesso contradditorietà, bisogna sottolineare come chiudere settorialmente solo le istituzioni e gli eventi culturali qualsiasi sia la motivazione intrinseca la prima banale conseguenza è la solita confessione: che la cultura è sacrificabile. Anche la chiusura di asili e scuole è oggetto di dibattito, ma prima ancora di pensare se sia giusto o sbagliato, si è discusso se ciò sia affordabile dalle famiglie che magari non hanno alternative? E i lavoratori precari e meno garantiti che stanno rischiando o direttamente perdendo il posto di lavoro a causa delle chiusure improvvisate? Tutto questo ci dice che c’è un conflitto latente pronto a scoppiare e che andrebbe reso esplicito, spiegato a noi stessi e a chi ci circonda, perché non viviamo su Marte, ma magari vicino ad una coppia di genitori lavoratori che con le scuole chiuse non sanno a chi lasciare i figli e se si assentano da lavoro rischiano di essere licenziati o che non gli venga rinnovato il contratto. Siamo immersi nel realismo capitalista, e proprio un giapster nel secondo dei post linkati sopra cita Fisher:

“La lunga e oscura notte della fine della storia deve essere considerata come un’enorme opportunità. La pervasività molto opprimente del realismo capitalista significa che anche i barlumi di possibilità politiche ed economiche alternative possono avere un grande effetto di impatto sproporzionato. Il più piccolo evento può aprire un buco nella tenda grigia della reazione che ha segnato gli orizzonti delle possibilità sotto il realismo capitalista. Da una situazione in cui nulla può accadere, all’improvviso tutto è nuovamente possibile.”

E infine si può e si deve parlare della normalizzazione delle misure eccezionali restrittive della libertà: com’è possibile che ci si possa ammassare nei centri commerciali magari per fare incetta di prodotti igienizzanti spinti dal terrorismo mediatico e poi vengano vietate le assemblee sindacali? L’emergenza, se tale, non deve derogare ai princìpi se non per lo stretto necessario, e una tantum, mentre non è peregrino chi paragona le misure adottate in questo frangente con quelle adottate sull’ondata emotiva indotta dal terrorismo (post 11 settembre e successivo) e progressivamente normalizzate.

Al momento il frame dominante è che bisogna ripartire altrimenti le conseguenze sull’economia (già fragile e prossima ad una recessione se possibile più grave di quella del 2008*) saranno devastanti. Dopo averci spaventato a morte con dirette h24 dalle zone rosse, senza minimamente preoccuparsi dell’espressione, che a me mette i brividi almeno dal 2001, dopo l’hype mediatico ora, anzi già da qualche giorno è arrivato il contro ordine, e pure i titoli di Libero, nella loro bestialità tra le migliori cartine tornasole del livello dei media mainstream, si sono ridimensionati. Quello che noi dobbiamo fare invece è rifiutare la presunta normalità e rovesciare il frame: ci vogliono far credere che sia normale socializzare le perdite e privatizzare i profitti, e anche questa emergenza la pagheranno i più deboli. Questo va denunciato e combattutto.

*A questo proposito, quando arriverà la crisi, perché è questione di tempo, scommetto che si farà a gara per dare la colpa all’eccezionalità del virus, mentre sarà nostro compito dimostrare che al massimo quello ha accelerato un processo che era già in corso, come una pallina che scivola su un piano inclinato.