Genova non è finita

nessun rimorso

Da qualche settimana già ci penso su, da mesi so che devo farlo. Per il ventennale di Genova molto si sta muovendo, e anche per fronteggiare tutto quello che sta arrivando ho sentito la necessità di prepararmi. #genovanonèfinita dice un hashtag che si affaccia su Twitter. Ma cosa è stata? Il podcast Il salto scritto da @smenafra – Sara Menafra – con l’editing di @Majunteo – Matteo Miavaldi, disponibile su RaiPlayRadio e sul sito di Radio 3 dice bene: “se avete almeno 35 anni, e i primi 20 li avete passati in Italia, la morte di Carlo Giuliani e le giornate del G8 di Genoa probabilmente sono state un punto di rottura della vostra giovinezza”.

(A proposito di podcast consiglio quello di @RadioCaneMilano e quello curato da Annalisa Camilli per Internazionale, ancora in corso, un episodio a settimana a partire dal 16 giugno, saranno infine 8 episodi, dal titolo Limoni).

Il movimento dei movimenti

Alla fine del Ventesimo secolo i movimenti contro la globalizzazione capitalista alzavano la testa e si scoprivano forti anche attraverso la scelta di costituire dei controvertici in opposizione al “governo dei potenti”: il G8, ora G7 dopo la sospensione della Russia per via dei fatti di Crimea, che poi si è ritirata, tanto sta nel G20 (l’ultimo vertice si è tenuto a fine giugno in Cornovaglia), il WTO, la Banca mondiale. Proprio al volgere del secolo, a Seattle in occasione del vertice del WTO il movimento si impose di fronte all’opinione pubblica mondiale, impedendo l’inaugurazione dell’evento. Su Radio Onda Rossa tra gli speciali in vista del ventennale di Genova si possono ascoltare due puntate sulla “stagione dei controvertici“. Genova è stato il punto culminante di quel movimento, chi è andato a Genova sapeva l’importanza di esserci, col senno di poi, cercando capire i motivi della sconfitta, o quanto meno del riflusso del movimento, c’è chi ha detto che l’attenzione verso il grande “evento” è stato un errore strategico. (vedi negli anni successivi le riflessioni fatte dai Wu Ming nella allora newsletter Giap)

Per dare un’idea della tensione crescente nelle settimane e nei giorni precedenti si può seguire la Time machine realizzata da Indymedia, che sta rimettendo online tutto ciò che da loro venne pubblicato allora, giorno per giorno.

A vederlo in retrospettiva, vent’anni dopo, è difficile poter dare torto ai tantissimi che riempirono le piazze in quegli anni: le questioni poste dal movimento sono ancora all’ordine del giorno, la crisi del 2008 prima e la lunga crisi pandemica di cui non si vede la fine sembrano dire proprio “Avevate ragione voi” (https://yewtu.be/watch?v=dvu-3YzAkDw).

La “dichiarazione di guerra” delle tute bianche:

Alla Società Civile Globale;

al Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza – Italia
al Ministero della Difesa italiano – Capo di stato maggiore;
al Governo italiano – Presidenza del Consiglio – Presidente della Repubblica;
al Capo di Stato Maggiore FF.AA. Stati Uniti d’America – Ambasciata americana Roma;
Direzione C.I.A. – sede S.I.S.D.E. Roma;

DICHIARAZIONE DI GUERRA AI POTENTI DELL’INGIUSTIZIA E DELLA MISERIA

Apprendiamo da fonti giornalistiche italiane che i governi italiano e americano hanno deciso in una riunione svoltasi al Viminale, Roma, il 24 maggio 2001, di dichiarare formalmente guerra alle moltitudini di fratelli e sorelle che confluiranno a Genova durante il vertice del G8 previsto per luglio. La scelta di usare le vostre forze armate e i corpi speciali contro l’umanità, vi rende più vicini ai vostri alleati che nel sud del mondo quotidianamente uccidono, affamano, perseguitano chi non accetta lo sfruttamento del neoliberismo. In ogni parte di questo pianeta i vostri militari intervengono con i fucili contro le idee e i sogni di un mondo diverso, un mondo che contenga molti mondi. Il mondo che voi volete imporre anche nella vostra riunione di Genova, è un mondo unico, dove esista un pensiero unico, dove l’unica ideologia sia quella del denaro, dei profitti, del mercato delle merci e dei corpi. Il vostro mondo è un impero, voi gli imperatori, miliardi di esseri viventi semplici sudditi.

Dalle periferie di questo impero, dai molti mondi che resistono e crescono con il sogno di una esistenza migliore per tutti, oggi, noi, piccoli sudditi ribelli, vi dichiariamo formalmente guerra. È una scelta che voi avete provocato, perché noi preferiamo la pace, è una decisione che per noi significa sfidare la vostra arroganza e la vostra forza, ma siamo obbligati a farlo.

È un obbligo tentare di fermarvi perché finisca l’ingiustizia
È un obbligo dare voce ai fratelli e sorelle che in tutto il pianeta soffrono a causa vostra
È un obbligo non cedere alla paura dei vostri eserciti e alzare la testa

È un obbligo perché solo per obbligo noi dichiariamo le guerre. Ma se dobbiamo scegliere tra lo scontro con le vostre truppe d’occupazione e la rassegnazione, non abbiamo dubbi. Ci scontreremo.

Vi annunciamo formalmente che anche noi siamo scesi sul piede di guerra. Saremo a Genova e il nostro esercito di sognatori, di poveri e bambini, di indios del mondo, di donne e uomini, di gay, lesbiche, artisti e operai, di giovani e anziani, di bianchi, neri, gialli e rossi, disobbedirà alle vostre imposizioni. Noi siamo un esercito nato per sciogliersi, ma solo dopo avervi sconfitto. Oggi noi diciamo “Ya Basta!”.

Dalle periferie dell’Impero
Tute Bianche per l’umanità contro il neoliberismo
26 maggio 2001 – Genova, Italia, Pianeta Terra

Dalle moltitudini d’Europa in marcia contro l’Impero e verso Genova (19-21 luglio 2001)

Noi siamo nuovi, ma siamo quelli di sempre.
Siamo antichi per il futuro, esercito di disobbedienza le cui storie sono armi, da secoli in marcia su questo continente. Nei nostri stendardi è scritto “dignità”. In nome di essa combattiamo chi si vuole padrone di persone, campi, boschi e corsi d’acqua, governa con l’arbitrio, impone l’ordine dell’Impero, immiserisce le comunità.

Siamo i contadini della Jacquerie. I mercenari della Guerra dei Cent’anni razziavano i nostri villaggi, i nobili di Francia ci affamavano. Nell’anno del Signore 1358 ci sollevammo, demolimmo castelli, ci riprendemmo il nostro. Alcuni di noi furono catturati e decapitati. Sentimmo il sangue risalire le narici, ma eravamo in marcia ormai, e non ci siamo più fermati.

Siamo i ciompi di Firenze, popolo minuto di opifici e arti minori. Nell’anno del Signore 1378 un cardatore ci guidò alla rivolta. Prendemmo il Comune, riformammo arti e mestieri. I padroni fuggirono in campagna e di là ci affamarono cingendo d’assedio la città. Dopo due anni di stenti ci sconfissero, restaurarono l’oligarchia, ma il lento contagio dell’esempio non lo potevano fermare.

Siamo i contadini d’Inghilterra che presero le armi contro i nobili per porre fine a gabelle e imposizioni. Nell’anno del Signore 1381 ascoltammo la predicazione di John Ball: “Quando Adamo zappava ed Eva filava / chi era allora il padrone?”. Con roncole e forconi muovemmo dall’Essex e dal Kent, occupammo Londra, appiccammo fuochi, saccheggiammo il palazzo dell’Arcivescovo, aprimmo le porte delle prigioni. Per ordine di re Riccardo II° molti di noi salirono al patibolo, ma nulla sarebbe più stato come prima.

Siamo gli hussiti. Siamo i taboriti. Siamo gli artigiani e operai boemi, ribelli al papa, al re e all’imperatore dopo che il rogo consumò Ian Hus. Nell’anno del signore 1419 assaltammo il municipio di Praga, defenestrammo il borgomastro e i consiglieri comunali. Re Venceslao morì di crepacuore. I potenti d’Europa ci mossero guerra, chiamammo alle armi il popolo ceco. Respingemmo ogni invasione, contrattaccando entrammo in Austria, Ungheria, Brandeburgo, Sassonia, Franconia, Palatinato… Il cuore di un continente nelle nostre mani. Abolimmo il servaggio e le decime. Ci sconfissero trent’anni di guerre e crociate.

Siamo i trentaquattromila che risposero all’appello di Hans il pifferaio. Nell’anno del Signore 1476, la Madonna di Niklashausen si rivelò ad Hans e disse:
“Niente più re né principi. Niente più papato né clero. Niente più tasse né decime. I campi, le foreste e i corsi d’acqua saranno di tutti. Tutti saranno fratelli e nessuno possederà più del suo vicino.”
Arrivammo il giorno di S. Margherita, una candela in una mano e una picca nell’altra. La Santa Vergine ci avrebbe detto cosa fare. Ma i cavalieri del Vescovo catturarono Hans, poi ci attaccarono e sconfissero. Hans bruciò sul rogo. Non così le parole della Vergine.

Siamo quelli dello Scarpone, salariati e contadini d’Alsazia che, nell’anno del Signore 1493, cospirarono per giustiziare gli usurai e cancellare i debiti, espropriare le ricchezze dei monasteri, ridurre lo stipendio dei preti, abolire la confessione, sostituire al Tribunale Imperiale giudici di villaggio eletti dal popolo. Il giorno della Santa Pasqua attaccammo la fortezza di Schlettstadt, ma fummo sconfitti, e molti di noi impiccati o mutilati ed esposti al dileggio delle genti. Ma quanti di noi proseguirono la marcia portarono lo Scarpone in tutta la Germania. Dopo anni di repressione e riorganizzazione, nell’anno del Signore 1513 lo Scarpone insorse a Friburgo. La marcia non si fermava, né lo Scarpone ha più smesso di battere il suolo.

Siamo il Povero Konrad, contadini di Svevia che si ribellarono alle tasse su vino, carne e pane, nell’anno del Signore 1514. In cinquemila minacciammo di conquistare Schorndorf, nella valle di Rems. Il duca Ulderico promise di abolire le nuove tasse e ascoltare le lagnanze dei contadini, ma voleva solo prendere tempo. La rivolta si estese a tutta la Svevia. Mandammo delegati alla Dieta di Stoccarda, che accolse le nostre proposte, ordinando che Ulderico fosse affiancato da un consiglio di cavalieri, borghesi e contadini, e che i beni dei monasteri fossero espropriati e dati alla comunità. Ulderico convocò un’altra Dieta a Tubinga, si rivolse agli altri principi e radunò una grande armata. Gli ci volle del bello e del buono per espugnare la valle di Rems: assediò e affamò il Povero Konrad sul monte Koppel, depredò i villaggi, arrestò sedicimila contadini, sedici ebbero recisa la testa, gli altri li condannò a pagare forti ammende. Ma il Povero Konrad ancora si solleva.

Siamo i contadini d’Ungheria che, adunatisi per la crociata contro il Turco, decisero invece di muover guerra ai signori, nell’anno del Signore 1514. Sessantamila uomini in armi, guidati dal comandante Dozsa, portarono l’insurrezione in tutto il paese. L’esercito dei nobili ci accerchiò a Czanad, dov’era nata una repubblica di eguali. Ci presero dopo due mesi d’assedio. Dozsa fu arrostito su un trono rovente, i suoi luogotenenti costretti a mangiarne le carni per aver salva la vita. Migliaia di contadini furono impalati o impiccati. La strage e quell’empia eucarestia deviarono ma non fermarono la marcia.

Siamo l’esercito dei contadini e dei minatori di Thomas Muentzer. Nell’anno del Signore 1524, al grido di: “Tutte le cose sono comuni!” dichiarammo guerra all’ordine del mondo, i nostri Dodici Articoli fecero tremare i potenti d’Europa. Conquistammo le città, scaldammo i cuori delle genti. I lanzichenecchi ci sterminarono in Turingia, Muentzer fu straziato dal boia, ma chi poteva più negarlo? Ciò che apparteneva alla terra, alla terra sarebbe tornato.

Siamo i lavoranti e contadini senza podere che nell’anno del Signore 1649, a Walton-on-Thames, Surrey, occuparono la terra comune e presero a sarchiarla e seminarla. “Diggers”, ci chiamarono. “Zappatori”. Volevamo vivere insieme, mettere in comune i frutti della terra. Più volte i proprietari terrieri istigarono contro di noi folle inferocite. Villici e soldati ci assalirono e rovinarono il raccolto. Quando tagliammo la legna nel bosco del demanio, i signori ci denunciarono. Dicevano che avevamo violato le loro proprietà. Ci spostammo a Cobham Manor, costruimmo case e seminammo grano. La cavalleria ci aggredì, distrusse le case, calpestò il grano. Ricostruimmo, riseminammo. Altri come noi si erano riuniti in Kent e in Northamptonshire. Una folla in tumulto li allontanò. La legge ci scacciò, non esitammo a rimetterci in cammino.

Siamo i servi, i lavoranti, i minatori, gli evasi e i disertori che si unirono ai cosacchi di Pugaciov, per rovesciare gli autocrati di Russia e abolire il servaggio. Nell’anno del Signore 1774 ci impadronimmo di roccaforti, espropriammo ricchezze e dagli Urali ci dirigemmo verso Mosca. Pugaciov fu catturato, ma il seme avrebbe dato frutti.

Siamo l’esercito del generale Ludd. Scacciarono i nostri padri dalle terre su cui vivevano, noi fummo operai tessitori, poi arrivò l’arnese, il telaio meccanico… Nell’anno del Signore 1811, nelle campagne d’Inghilterra, per tre mesi colpimmo fabbriche, distruggemmo telai, ci prendemmo gioco di guardie e conestabili. Il governo ci mandò contro decine di migliaia di soldati e civili in armi. Una legge infame stabilì che le macchine contavano più delle persone, e chi le distruggeva andava impiccato. Lord Byron ammonì:
“Non c’è abbastanza sangue nel vostro codice penale, che se ne deve versare altro perché salga in cielo e testimoni contro di voi? Come applicherete questa legge? Chiuderete un intero paese nelle sue prigioni? Alzerete una forca in ogni campo e appenderete uomini come spaventacorvi? O semplicemente attuerete uno sterminio?… Sono questi i rimedi per una popolazione affamata e disperata?”.
Scatenammo la rivolta generale, ma eravamo provati, denutriti. Chi non penzolò col cappio al collo fu portato in Australia. Ma il generale Ludd cavalca ancora di notte, al limitare dei campi, e ancora raduna le armate.

Siamo le moltitudini operaie del Cambridgeshire, agli ordini del Capitano Swing, nell’anno del Signore 1830. Contro leggi tiranniche ci ammutinammo, incendiammo fienili, sfasciammo macchinari, minacciammo i padroni, attaccammo i posti di polizia, giustiziammo i delatori. Fummo avviati al patibolo, ma la chiamata del Capitano Swing serrava le file di un esercito più grande. La polvere sollevata dal suo incedere si posava sulle giubbe degli sbirri e sulle toghe dei giudici. Ci attendevano centocinquant’anni di assalto al cielo.

Siamo i tessitori di Slesia che si ribellarono nell’anno 1844, gli stampatori di cotonate che quello stesso anno infiammarono la Boemia, gli insorti proletari dell’anno di grazia 1848, gli spettri che tormentarono le notti dei papi e degli zar, dei padroni e dei loro lacchè. Siamo quelli di Parigi, anno di grazia 1871.
Abbiamo attraversato il secolo della follia e delle vendette, e proseguiamo la marcia.

Loro si dicono nuovi, si battezzano con sigle esoteriche: G8, FMI, WB, WTO, NAFTA, FTAA… Ma non ci ingannano, sono quelli di sempre: gli écorcheurs che razziarono i nostri villaggi, gli oligarchi che si ripresero Firenze, la corte dell’imperatore Sigismondo che attirò Ian Hus con l’inganno, la Dieta di Tubinga che obbedì a Ulderico e annullò le conquiste del Povero Konrad, i principi che mandarono i lanzichenecchi a Frankenhausen, gli empii che arrostirono Dozsa, i proprietari terrieri che tormentarono gli Zappatori, gli autocrati che vinsero Pugaciov, il governo contro cui tuonò Byron, il vecchio mondo che vanificò i nostri assalti e sfasciò ogni scala per il cielo.

Oggi hanno un nuovo impero, su tutto l’orbe impongono nuove servitù della gleba, si pretendono padroni della Terra e del Mare.

Contro di loro, ancora una volta, noi moltitudini ci solleviamo.

Genova.
Penisola italica.
19, 20 e 21 luglio
di un anno che non è più di alcun Signore.

Nei cortei erano previsti e si mossero spezzoni diversi, tutte le diverse anime del movimento erano rappresentate, non tutti sposavano gli stessi metodi di stare in piazza. E poi c’erano i black bloc, che le forze dell’ordine usarono come alibi per reprimere violentemente il movimento. Difficile dire che fu pianificato, altrettanto complicato dare la colpa solo ad impreparazione ed errori tattici. Non è “solo” morto un ragazzo, è stato un inferno e riguardando il materiale video, riascoltando quello audio, le testimonianze, le ricostruzioni, si può affermare che se non ci sono stati altri morti è stato un miracolo.

Su Carlo, a me sale la rabbia ogni anno, perché con troppa superficialità c’è sempre ancora qualcuno che dice che l’estintore, e il passamontagna, e insomma se l’è cercata. Diverse registrazioni, sentite nel podcast di Annalisa Camilli, sono di cittadini che chiamavano la polizia chiedendo di intervenire perché “sfasciano tutto” e invocavano le maniere forti – d’altra parte di fronte alla mattanza molti altri aprirono le porte e diedero acqua e sollievo ai manifestanti. Quelle maniere forti che invece hanno saputo usare solo con i “deboli”, perché lo sappiamo che i black bloc sono stati lasciati agire indisturbati, da Marassi a Piazza Paolo da Novi (ci sarebbe anche da discutere della strumentalità della divisione tra manifestanti buoni e cattivi, tra noi e loro). Non dovrebbe stupire, e vent’anni dopo in seguito allo “scandalo” del carcere di Santa Maria Capua Veterequi il video, che io non ho visto perché non so se reggo – (e Modena, e quelli che passano in sordina?) non si è sollevata quasi nessuna protesta, perché gli ultimi tali sono, e pochi li difendono. Ritornare a Carlo è difficile. Mi arrabbio in primo luogo con me stessa, che quando lo vidi la prima volta con quell’estintore, avevo 15 anni, cerco di giustificarmi, pensai “cazzo, no”. E troppo velocemente giudicai. È forse il senso di colpa per quei giudizi frettolosi che oggi mi impedisce di passare oltre, e mi costringe a prendere posizione, puntualizzare, litigare e incazzarmi spesso. Perché è ancor più ingiustificabile oggi, dopo vent’anni, dare giudizi sommari. Compito di noi tutti è tenere viva la memoria e continuare quella lotta. Consiglio sempre comunque il post su Giap di ormai nove anni fa.

Genova si può raccontare da diverse angolazioni. Genova è anche un pezzo importante di storia del “mediattivismo“. Per chi ha vent’anni ora sembra banale, ma la costruzione corale, dal basso, del racconto delle giornate di Genova era una novità assoluta in un’epoca in cui non esistevano smartphone e le connessioni dei computer (desktop) erano lentissime. Senza il lavoro importante e in presa diretta di tanti non si sarebbe potuto squarciare il velo dell’informazione “ufficiale” in maniera immediata. L’Independent Media Center (Indymedia) è una rete di mezzi di comunicazione di massa e di giornalisti messa in piedi proprio in occasione delle proteste contro il vertice del WTO a Seattle, che si allargò con la costruzione di diversi nodi tra cui quello italiano nato nel 2000 (che chiuse nel 2006). Oggi è stato rimesso online con l’operazione Indymedia Time Machine di cui parlavo più sopra e il sito che si vede è quello aggiornato fino alla chiusura. Indymedia si trovava nel Media center allestito dal Genova Social Forum insieme ad altre realtà mediatiche, tra cui Radio GAP – Global Audio Project che riuniva radio comunitarie e di base da diverse città italiane, e furono vittime anch’essi della violenta irruzione della polizia la sera del 21 luglio 2001. Dinamopress ha preparato un ottimo speciale sul mediattivismo.

Su Wikipedia alla voce “Fatti del G8 di Genova” si parla di “scontri tra forze dell’ordine e manifestanti”. Quantomeno è una forzatura, se non una menzogna vera e propria: il termine scontro presuppone un fronteggiamento tra due schieramenti, ma in realtà sappiamo che i cortei, peraltro autorizzati, vennero caricati a freddo, senza alcun ordine ufficiale né giustificazione. E questo portò a Piazza Alimonda. Poi ci furono la Diaz, “una rappresaglia scientifica alla figuraccia mondiale per le prese in giro dei black bloc. Un tentativo, maldestro, di rifarsi un’immagine e una verginità giocando sporco, picchiando a freddo, sbattendo a Bolzaneto ospiti indesiderati assolutamente innocenti” (dal libro Diaz di Vincenzo Canterini, comandante della Mobile di Roma e tra i responsabili dell’irruzione) e Bolzaneto, con le torture non giudicate tali perché il nostro paese non prevedeva tale reato nell’ordinamento. Il reato di devastazione e saccheggio, dal codice fascista, invece lo prevedeva, e di quel reato sono stati accusati e condannati alcuni manifestanti, e le loro vicende giudiziarie non sono ancora concluse, mentre tra le forze dell’ordine ci sono state promozioni e tanti nulla di fatto nelle indagini per l’impossibilità di riconoscere i singoli responsabili.

Per il ventennale, dicevo, molto si sta muovendo. Scontata l’attenzione del mainstream, cui non bisogna lasciare il racconto:

Ma sono i protagonisti di allora, che nonostante la ferita ancora aperta, o forse anche per quello, che stanno contribuendo a mantenere viva la memoria, che non sia solo testimonianza ma anche riscatto. Qui il blog dedicato, con la speranza che il movimento torni a farsi sentire forte.

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La legge della notte – Tutti i miei errori – Dennis Lehane

Il tempo si affitta ma non si possiede mai. (TimE)

la legge della notteSe Quello era l’anno è forse il più bello, il più compiuto, Tutti i miei errori è sicuramente il più sofferto, il più doloroso della trilogia. Avevo già letto quest’ultimo ma resami conto di aver saltato il secondo capitolo, come ho già spiegato, ho deciso di ricominciare con ordine. Il protagonista del secondo e del terzo libro non è più Danny Coughlin ma il fratello più piccolo – e “problematico” – Joe, che sceglie di vivere dall’altra parte della barricata, si immagina di essere un fuorilegge, a tratti romantico, mentre diventa un gangster, arrivando a sedere nella commissione di Cosa Nostra. Arriviamo ai tempi di Lucky Luciano, e della seconda guerra mondiale. Il contesto storico in questi due libri resta sullo sfondo, mentre le scelte si Joe, il suo ambiente, i suoi tormenti, forse soprattutto i suoi fantasmi, sono i veri protagonisti. Joe Coughlin non è il classico eroe negativo, sicuramente non è stereotipato, la verità è più complicata di così; come dice Donato Carrisi, Lehane ha la capacità di “trasformare un personaggio in una persona in carne e ossa”. Spesso Joe si ritrova a corto di parole, non sa che dire, o meglio si rende conto che non sempre ci sono le parole: “Joe non disse nulla. Non c’era niente da dire”. Joe si avvicina, o viene avvicinato da Cosa Nostra quando finisce in prigione. Il racconto degli anni in carcere ne La legge della notte, è duro ma efficace.

Questo posto ti toglie ogni speranza. Anche se sei qui da poco, sono sicuro che sei arrivato alla stessa conclusione. (LLdN)

Divora gli uomini. E non li risputa più fuori. (LLdN)

Se al momento di entrare nutrivano qualche illusione sulla decenza del genere umano, la perdevano all’istante. C’erano troppi prigionieri e poche guardie perché il carcere potesse assumere una funzione diversa da quella che aveva: anzitutto una discarica, e poi un banco di prova, per animali. Se ci entravi uomo, ne uscivi bestia. E se ci entravi già animale, dentro non facevi che affinare le tue doti. (LLdN)

la legge della notte filmNel film tratto dal film, diretto e con protagonista Ben Affleck, gli anni della prigione vengono praticamente saltati, l’incontro con Maso Pescatore avviene fuori e quest’ultimo non è quindi mai stato incarcerato. Il film non è male ma è ovviamente una riduzione del libro, e Ben Affleck come regista sarà bravo però come attore non mi è mai piaciuto.

Il tema del carcere mi preme molto per diversi motivi e la resa che ne dà Lehane, per quanto possa sembrare scenica, è terribilmente attuale. Da noi manca una riflessione seria collettiva, e putroppo spesso ci distinguiamo per essere manettari senza rifletterci neanche un po’ sopra, su cosa comporta la privazione della libertà, salvo lamentarsi di un breve periodo di “lockdown”. Qualche spunto potrebbe darlo questo testo di Cesare Battisti, giusto per mollare un po’ la nostra zona di comfort e pensare seriamente al tema. Ma ho divagato…

Uscito di prigione comunque, Joe diventa un capo in Florida e aiuta anche i cubani ad armarsi per la rivoluzione, seguendo un percorso anomalo ma che nonostante i rischi, grazie alla sua sfrontatezza gli frutta ancora successo. Più avanti la collaborazione della mafia col regime di Batista non desterà alcun dubbio morale, a riprova dell’essenza di anti-eroe del protagonista.

L’inerzia umana, quella resistenza al cambiamento di cui avevamo letto nel primo capitolo torna anche qua:

Il mondo può cambiare, ma la gente no, la gente resta sempre più o meno uguale. (LLdN)

Tutti crediamo alle menzogne che ci danno più conforto della verità. (LLdN)

Non ho sottolineato moltissimo durante la lettura, però rileggendo quelle parole sono tutte importanti e memorabili a loro modo.

La certezza. È la menzogna più meravigliosa di tutte. (LLdN)

Mentre aspettava nel buio di quello che immaginava dovesse essere il ristorante del secondo piano, gli venne in mente che le persone erano come torce elettriche: irradiavano luce, si affievolivano, tremolavano e si spegnevano. (LLdN)

“Buffo come funzionava il potere”

tutti i miei erroriIn Tutti i miei errori si chiude la parabola di Joe, indurito dalla vita da gangster e dalle sue conseguenze. Potremmo per certi versi definirlo un romanzo sul potere, viste le ripetute riflessioni in merito che vi compaiono:

Quello che nessuno dice sul potere è che non è mai assoluto; nell’ istante esatto in cui ce l’hai, c’è già qualcuno pronto a togliertelo.

Il potere – o almeno la maggior parte (…) è come la mosca che pensa di essere un falco. Comanda solo su chi accetta di chiamarla falco anche se è una mosca, tigre anche se è un gatto, re anche se è un uomo.

In tutta la vita c’era una cosa che aveva imparato sul potere: quelli che lo perdevano di solito non se ne rendevano conto finché non era irrimediabilmente svanito.

Qui ritorna anche l’idea secondo cui le persone non cambiano: “i tempi cambiano, gli sussurrò la voce. Gli uomini no”.

Come già detto, non c’è lo stesso sguardo ampio sul contesto che aveva caratterizzato Quello era l’anno, ma il restringimento visuale non impedisce di far emergere qua e là le stesse tematiche, così come lo sfondo storico che ogni tanto si riaffaccia, pur nel susseguirsi spesso concitato della vicenda, fino alla conclusione, amara ma necessaria, un po’ come la vita.

“Per quanto mi riguarda, l’unica differenza che c’è tra un ladro e un banchiere è solo il titolo di studio”. Lei scosse la testa “i banchieri non si sparano addosso per strada, Joe”. “Perché a loro non piacciono i vestiti sgualciti, Vanessa. Il fatto che facciano porcherie con una penna non li rende più puliti”.

L’ultimo capitolo del libro si intitola Orfani, ed è indicativo del riallacciarsi dei fili tra l’epilogo e il primo volume, in cui il rapporto tra Joe e il padre era venuto alla luce per la prima volta. Joe cerca disperatamente di essere migliore del suo modello eppure la vita che si è scelto difficilmente potrebbe renderlo un padre migliore. In conclusione la lettura dei libri di Lehane è sempre un’attività piacevole, da lettrice e non solo, perché la bella scrittura è di ispirazione anche per chi ama scrivere, per cui non smetto mai di consigliare di leggere questo autore!

Sacrificabili sull’altare del capitale

Il coronavirus è certamente un evento straordinario, ma non imprevedibile. È il quinto virus aggressivo negli ultimi 17 anni, un’eventualità a cui il sistema sanitario dovrebbe essere pronto a rispondere. Non dovrebbe riguardare la “medicina delle catastrofi”, ma una normale pianificazione. Qui la catastrofe è stata generata da scelte economiche e politiche in nome dell’austerità pubblica e della garanzia di profitto privato in un settore in cui è direttamente in gioco la vita delle persone. La catastrofe si chiama capitalismo, e chi ha approvato queste misure e fatto profitti con la privatizzazione della sanità ha la diretta responsabilità delle morti evitabili di queste settimane. (Qui)

Le zone rosse, ristrette pare per salvaguardare il corridoio industriale-logistico Milano – Piacenza, le zone arancioni, in tutta Italia, chiudiamo tutto, ché neanche Duccio di Boris, perché “a noi la qualità ci ha rotto er cazzo”. Gli annunci, gli accordi tra la regione Lombardia e la Confindustria lombarda per garantire la produzione, le lamentele di Coldiretti, che chiede di poter sfruttare studenti e pensionati visto che quella che ormai è pandemia ha chiuso le frontiere ai soliti schiavi sacrificabili. FCA di Pomigliano chiude ma ovviamente non è il padrone saggio, quanto la spinta dal basso, gli scioperi spontanei degli operai che si chiedono quanto siano essenziali le loro attività quando in Italia sta chiudendo (quasi) tutto. E gli scioperi si estendono a macchia d’olio, e seguono da vicino le rivolte nelle carceri dei giorni scorsi, che hanno per un attimo sollevato il velo su parte degli invisibili di questa società al punto da far intervenire le Camere Penali di Modena con un comunicato in cui tra l’altro si legge:

Le uniche informazioni che abbiamo ottenuto su quei fatti sono quelle fornite dalla Polizia Penitenziaria, giacché l’Autorità Giudiziaria (requirente e di Sorveglianza) non ha inteso divulgare notizie di dettaglio sullo svolgersi degli accertamenti.

I morti nelle rivolte del carcere di Modena sono saliti a 9, un numero enorme che lascia sgomenti, ancor di più per il fatto che risulta difficile comprendere come molti di loro siano deceduti nel corso della traduzione o presso l’istituto di destinazione.

La retorica dominante per sconfiggere il virus è diventata #tuttiacasa #iorestoacasa, peccato che non tutti i lavoratori possano restare a casa o lavorare da casa. Al solito restano col cerino in mano i meno garantiti, dagli operai ai precari, sempre i più deboli insomma. Dopo Pomigliano, gli scioperi e le proteste sono stati segnalati un po’ in tutta Italia, da Terni a Marghera, nel bresciano, a Mantova, dal Piemonte a Bologna, dal Varesotto fino a Taranto. A Bologna arriva anche l’invito ai ciclofattorini di astenersi dal lavoro da parte della Riders Union, che dichiarano:

pensiamo al necessario, alla nostra salute, alla nostra vita e a chi sembra non abbia il diritto di poter restare a casa. Chiediamo l’accesso agli ammortizzatori sociali e il diritto di prendere continuità di reddito, perché dobbiamo poter continuare a vivere restando a casa. Chiediamo che il governo metta restrizioni su tutto il territorio nazionale alle consegne a domicilio, prendendo esempio dalle disposizioni della Regione Campania che individuano nel food delivery un possibile veicolo di contagio. Il governo mobiliti inoltre l’Agenzia delle Entrate per provvedere alla restituzione immediata delle ritenute d’acconto per i prestatori occasionali che negli anni 2018 e 2019 sono rimasti al di sotto della soglia dei 5000 euro.

Mentre si avverte un crescente isolamento sociale e politico, dovuto più che al virus alla narrazione intorno ad esso e al rinnovato clima di unità nazionale per cui appare sacrilego criticare il merito delle misure prese, in ogni caso, io continuo a sentire la necessità di guardare oltre l’immediato, verso un futuro non so quanto prossimo ma che si preannuncia terribile, se non si riflette ora e si agisce al più presto per contrastare questo pauroso arretramento collettivo. A proposito di isolamento, mi ha colpito la mole di ringraziamenti e “sospiri di sollievo” letti in calce alla terza parte del diario virale dei Wu Ming, sintomo di un malessere purtroppo molto diffuso. E intanto l’Avvenire si dimostra ancora quotidiano con ottime firme, sorpassando ormai a ripetizione a sinistra qualunque cosa si dichiari di sinistra o progressista in questo paese, mettendo bene a fuoco quanto questa eccezionalità e urgenza sia pericolosa:

questi decreti hanno messo in campo la più intensa limitazione dei diritti fondamentali garantiti dalla Costituzione dal momento in cui questa è in vigore, cioè da 72 anni a questa parte: non è solo limitata la libertà di circolazione, ma anche quella di riunione, così come il diritto all’istruzione, il diritto al lavoro e la libertà di iniziativa economica, nonché, almeno in parte la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà religiosa e la stessa libertà personale, pur con una serie di meccanismi di flessibilizzazione dei divieti e delle prescrizioni che in taluni casi li riducono a mere raccomandazioni.

Oltre la bieca retorica dell’italiano allergico alle regole, io penso che il conformismo sia particolarmente diffuso ai nostri giorni, e in una situazione eccezionale e alienante come quella che stiamo vivendo alle porte delle idi di marzo credo che possa solamente aumentare. Non dico che dovremmo ignorare le indicazioni generali per evitare o comunque rallentare i contagi, non mi sognerei mai, ho paura anche io e ho difficoltà a dormire come non accadeva da tempo, però la soluzione non può essere solo calare la testa e aspettare, perché un giorno questa emergenza sarà rientrata, e quel che avremo fatto nel frattempo sarà importante per determinare cosa saremo dopo.

 

Dentro o fuori (pericolo)

carceriOccorre parlare ancora del coronavirus, o meglio delle sue conseguenze, perché come tutti sanno la situazione si complica, i contagi aumentano nonostante gli sforzi (giusti?) e le misure prese (sufficienti? proporzionate? adatte?). Ma non ho nessuna intenzione di discutere di quanto possa essere frustrante vedere ridotta la mobilità e la libertà del cittadino medio, questo perché sono convinta che il grado di civiltà si misuri in base a come vengono trattati gli ultimi, i più deboli, come i malati, gli immunodepressi, e ignorati totalmente se non si fossero fatti sentire rumorosamente i detenuti. In un paese forcaiolo e sempre pronto ad essere forte con i deboli (e debole con i forti) questo è un discorso complicato perché pare che chi sia in carcere, per qualsiasi ragione, si possa meritare la qualunque. Eppure eravamo il paese di Beccaria. Poi c’è stata anche Mani pulite, tra le altre cose, e in nome di tanti torti subìti dai forti ci si è dati l’autorizzazione ad esserlo coi deboli. Siamo anche il paese di Tortora. La premessa è che le carceri sono sovraffollate, le più sovraffollate d’Europa dice Al Jazeera riportando le proteste in 27 carceri durante la giornata di ieri. Al Jazeera riporta i numeri dati dall’associazione Antigone, secondo cui il sistema carcerario è al 120% della sua capienza; non solo, 42 prigioni sono oltre il 150% della capienza. In realtà le proteste sono iniziate sabato e poi sono dilagate in tutta Italia. La questione del coronavirus, e le misure (ancor più) restrittive come la sospensione delle visite, sono state la scintilla ma evidentemente la situazione era già insostenibile, la paura ha fatto il resto, visto che probire le visite o le uscite non garantisce che chi è dentro sia al sicuro. Anzi le condizioni igienico-sanitarie e la presenza di altre malattie che comportano una minore funzionalità del sistema immunitario, come riportato in un appello per la sospensione della pena ai detenuti anziani e malati e per un’amnistia, dicono il contrario. Non sono richieste folli, basti pensare che mentre i reati sono costantemente in calo la popolazione carceraria aumenta, a causa principalmente di inasprimenti delle pene per reati minori e non violenti – e qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte sul tema droghe, che riguarda circa il 30% della popolazione carceraria! Meglio di me comunque si spiega Luca Abbà, in questa riflessione condivisa dalla compagna FiloSottile. Qualcuno ribatterà dicendo che chi è in galera è più al sicuro e potrei rispondere dicendo di offrirsi di stare al loro posto, vista la criticità, ma rispondo diversamente, con la conferma dell’Ausl di Modena di un detenuto positivo al tampone; Modena dove ci sono stati nove morti, durante/per le proteste, anche se ci si è affrettato a dire che le morti sono dovute ad overdose di farmaci rubati in infermeria (almeno due secondo la polizia penitenziaria), altri tre morti, ufficialmente per gli stessi motivi, a Rieti. Le carceri non sono più sicure, anzi lo sono meno rispetto all’esterno, come dice un articolo che parla in particolare delle prigioni statunitensi, ma che potrebbe benissimo riferirsi anche alle nostre. Ancora una volta, l’emergenza coronavirus potrebbe servire per aprire un dibattito necessario, per mettere in discussione uno status quo che si dimostra ancora una volta insostenibile, umanamente, socialmente, economicamente.