Il nostro desiderio è senza nome

La morte e il capitale sono l’unica cosa certa.

Gli scritti politici di Mark Fisher, pubblicati da minimum fax col titolo Il nostro desiderio è senza nome, sono una serie di articoli pubblicati principalmente sul blog k-punk ma anche altrov,e accomunati appunto dal tema politico. A differenza dell’edizione inglese che concentra tutti gli scritti, in Italia si è deciso di pubblicare quattro volumi separati per le diverse tematiche trattate e questo è il primo. La definizione di realismo capitalista è ancora un punto di partenza per la riflessione, uno strumento concettuale creato dall’autore per essere superato:

Ecco qui il “realismo” capitalista: ricondurre alla sfera dell'”impossibile” ogni iniziativa che possa prevenire l’impoverimento dell’ambiente umano. Perché a questo equivale il “realismo”: non una rappresentazione del reale, ma una determinazione di ciò che è politicamente possibile.

L’apparente contraddizione tra il cambiamento impossibile e il tempo del cambiamento è qui sottolineata:

Il realismo capitalista è caratterizzato dal fatalismo a livello politico (dove quasi nulla può mai cambiare davvero, tranne che per muovere ulteriormente in direzione del neoliberismo) e dal volontarismo magico a livello individuale: puoi fare qualsiasi cosa, se solo sei disposto a seguire altri corsi di training, (…). Il volontarismo magico, naturalmente, alimenta nei tabloid la cultura della colpa individuale (…).

Non è necessaria l’adesione entusiastica a questo sistema, del resto fino ad ora si è dimostrato che è sufficiente aver dimostrato che si tratta dell’unico sistema praticabile “e che era impossibile costruire un’alternativa”.

La raccolta di testi è ricca di spunti interessanti di cui si può parlare e per comodità divido la trattazione in paragrafi in base agli argomenti che mi sembrano più meritevoli di attenzione.

Il Regno Unito

La politica anglosassone è un tema centrale di molti post e Fisher ne parla nei momenti di sconforto così come in quelli in cui intravede barlumi di cambiamento. Ad ogni modo il focus non è mai soltanto sulla politica locale, anzi le riflessioni sono le più ampie e generali possibili.

C’è ancora qualcuno che ama illudersi che un’amministrazione conservatrice sarebbe molto peggio del New Labour, al punto che degnarsi di votare per chiunque altro costituirebbe un “lusso”. Scegliere “il meno peggio” non significa soltanto prediligere questa opzione in particolare, ma anche scegliere un sistema che ti costringe ad accettare il meno peggio come il massimo in cui tu possa sperare. Naturalmente i difensori della dittatura dell’élite, forse ingannando addirittura se stessi, fanno finta che quello specifico cumulo di menzogne, compromessi e lusinghe che ci stanno spacciando è “solo temporaneo”. Che in un qualche indefinito momento del futuro le cose miglioreranno, se oggi sosteniamo l’ala “progressista” dello status quo. Eppure una scelta tra prendere o lasciare non è una vera scelta, e l’illusione del progressismo non è un vezzo psicologico, ma l’illusione strutturale su cui si fonda la democrazia liberale. (post del 2005)

È bello e un po’ struggente col senno di poi leggere i passi in cui Fisher aderisce entusiasticamente alle proteste e alle manifestazioni nelle quali intravede spiragli di un altro futuro possibile, ed è sempre istruttivo leggere le critiche come ad esempio quella dedicata agli “Hunger Games di Londra”, riferimento alle Olimpiadi del 2012:

Il motivo della sponsorizzazione degli eventi culturali e sportivi da parte del capitale non è solo quello ovvio di aumentare la riconoscibilità del marchio. La sua funzione più importante è di dare l’impressione che il coinvolgimento del capitale sia una precondizione necessaria per la cultura in quanto tale. La presenza dei sigilli capitalistici nella pubblicità degli eventi induce un’associazione quasi behaviorista tra capitale e cultura, registrata a livello di sistema nervoso piuttosto che cognitivo. È un rinforzo assolutamente pervasivo del realismo capitalista.

Capitalismo, lavoro, classe

La critica al capitalismo è sempre puntuale e illuminante ed è uno dei motivi per cui mi sento di consigliare la lettura del libro: perché con chiarezza e semplicità, ma senza banalità, riesce ad andare al cuore della questione, come quando cita un discorso di accettazione di Ursula Le Guin: “Viviamo sotto il capitalismo, e la sua forza pare inesorabile: ma un tempo era così anche per il diritto divino dei re”.

Diverse volte Fisher cita o dialoga con autori italiani come Marazzi, Negri, Bifo e questi arricchiscono il quadro teorico, dando una visione più dettagliata della realtà capitalistica:

Lavoro e vita si fanno inseparabili. Come ha osservato Marazzi, ciò avviene in parte perché oggi il lavoro è in qualche misura linguistico, ed è impossibile riporre il linguaggio nell’armadietto a fine giornata. Il capitale ti segue nei sogni. Il tempo cessa di essere lineare, diventando caotico e puntiforme. Mentre produzione e distribuzione vengono ristrutturate, lo stesso avviene per il sistema nervoso. Per funzionare in modo efficiente come componente della produzione “just in time”, devi sviluppare la capacità di rispondere a eventi imprevisti, apprendere a vivere in condizioni di totale instabilità o “precariato“, come indica lo spaventoso neologismo. Periodi di lavoro si alternano a periodi di disoccupazione. Tipicamente ci si ritrova impiegati in una serie di lavori a breve termine, senza alcuna possibilità di fare progetti per il futuro.

Il lavoro, per quanto precario, richiede oggi regolarmente l’esecuzione di metalavoro: la tenuta di registri, la messa per iscritto dettagliata di intenzioni e obiettivi, la partecipazione al cosidetto “formazione continua”.

La tendenza attuale è in pratica quella di trasformare ogni forma di lavoro in lavoro precario. Come scrive Franco Berardi, ormai “il capitale non recluta più persone, ma acquista pacchetti di tempo, separati dai loro detentori occasionali e intercambiabili”.

Particolarmente interessante la definizione di “povertà estetica“:

Ma esistono altre forme di deprivazione. Oltre alla povertà “fisica” esiste anche la povertà estetica, evidente a chiunque osservi con maggiore attenzione il triste spettacolo delle vie centrali superbrandizzate delle città inglesi. Mentre i ricchi possiedono le risorse culturali e materiali per “staccare la spina” dalla squallida banalità di questi spazi clonati, i poveri vi si ritrovano molto più intrappolati. Questa prigionia degli individui all’interno di ambienti fisici, sociali e mediatici rigidamente definiti è in effetti un importante sintomo di povertà estetica.

Queste parole riguardano anche l’illusione di essere quanto meno classe media, di prendere parte ai consumi alla pari, di condividere il benessere. Del resto noi siamo dei privilegiati, stiamo bene tutto sommato e facciamo parte della minoranza “vincente”. O no?

possedere uno smartphone oggi non significa più disporre di un “bene di lusso”. Il capitalismo comunicativo non riguarda la produzione di oggetti materiali, ma l’incessante circolazione di messaggi. Il “contenuto” di questa cultura proviene dagli utilizzatori stessi: quindi pagare per allacciarsi alla matrice comunicativa somiglia di più all’idea di pagarsi gli attrezzi da lavoro che all’acquisto di un bene di lusso. La distinzione stessa tra lavoro e non lavoro, tra fatica e divertimento si sta sgretolando. Non esiste più orario d’ufficio, né momento per timbrare il cartellino in uscita. Oltre ad assicurare la nostra perenne connessione alla matrice comunicativa, gli smartphone fungono da dispositivi guinzaglio che consentono ai datori di lavoro di convocare lavoratori a breve termine con pochissimo preavviso.

In diversi passaggi Fisher ribadisce la persistenza della divisione in classi sociali ed in ogni occasione le parole, nette sono vieppiù necessarie:

perché il neoliberismo non riguarda affatto la liberalizzazione dei mercati, ma riguarda moltissimo il potere di classe. Ciò si riflette nell’introduzione di particolari metodi e strategie, di modalità di valutazione di insegnanti e scuole, giustificati in nome di una presunta maggiore efficienza. Bene, chiunque abbia avuto a che fare con questa specie di stalinismo di mercato, per coniare un’altra espressione, sa benissimo che oggi conta soltanto ciò che sta scritto sui moduli, indipendentemente dal fatto che corrisponda o meno alla realtà.

Lo stato sociale non è nato grazie alla bontà e generosità dei capitalisti, ma come forma di “assicurazione contro la rivoluzione“, per far sì che il diffuso malcontento non si trasformasse in rivolta. I governanti attuali se ne sono dimenticati, e credono di poter continuare a eliminare le reti di sicurezza sociale come se niente fosse. I disordini dell’anno scorso danno un’idea delle possibili ripercussioni. (post del 2012)

Il realismo capitalista è una forma di lotta di classe combattuta da un lato solo, da una élite aziendale organizzata con idee molto chiare sui propri interessi di classe e su ciò che occorre fare per mantenere la situazione in linea con tali interessi.

Giocheranno sporco, ma questa non è una partita di cricket: è guerra di classe, loro lo sanno benissimo, e neanche noi dobbiamo mai dimenticarcelo.

Persiste la realtà di classe, ma non la coscienza. Il lavoro di Beverley Skeggs ed Helen Wood sui fondamenti di classe della reality tv e l’analisi di Owen Jones sulla “demonizzazione della classe operaia” mostrano che la collocazione di classe continua a manifestarsi, anche se poi è negata dalla cultura contemporanea.

Quello che manca dopo la diagnosi è la cura adatta, nel momento in cui Fisher riconosce i limiti dello spontaneismo e delle forme auto-organizzate che mancano di direzione ma allo stesso tempo ritiene impossibile ritornare al partito leninista, cioè quello che storicamente è stato in grado di cambiare il mondo, tra l’altro cadendo lui stesso in una forma di “realismo” nel momento in cui non dà motivazioni alla sua tesi: “non è in alcun modo possibile tornare al vecchio partito leninista, non più di quanto sia possibile tornare al capitalismo fordista. Ma neppure l’autonomismo naïf ha mostrato di avere gran presa sul momento attuale. L’anticapitalismo e la sua scorta di strategie (occupazioni, proteste) non hanno mai generato alcun serio allarme nel capitale. Il Sessantotto affermava che le strutture non scendono in strada: ma se l’anticapitalismo ci ha insegnato qualcosa, è che l’attivismo di strada esercita ben poco impatto sulle strutture”.

Contro l’anarchismo

Sono invece molto sensate le critiche all’anarchismo, contro il quale non usa mezzi termini:

Be’, per prima cosa è necessario sconfiggere gli anarchici, e non sto scherzando.  Dobbiamo chiederci perché le idee neoanarchiche siano tanto diffuse tra i giovani, specialmetne tra gli universitari di primo livello. La risposta brutale è che, sebbene le tattiche anarchiche siano assolutamente inefficaci per battere il capitale, il capitale ha distrutto tutte le tattiche (che) un tempo lo erano, permettendo a questo gruppuscolo di persone  di moltiplicarsi all’interno del movimento. Esiste una sgradevole sinergia tra la retorica della Big Society e molte idee e concezioni neoanarchiche. Per esempio, uno degli aspetti particolarmente deleteri di certe idee dominanti dell’attuale anarchismo è la loro presa di distanza da ciò che è mainstream.

Di nuovo, l’idea neoanarchica che lo stato è finito, che non dobbiamo prendere parte in alcun modo in esso, è profondamente pericolosa. Il punto non è che la politica parlamentare sarà da sola in grado di fare chissà cosa: il classico esempio di quello che ti succede quando si sposa un’idea simile è rappresentato dal New Labour. Potere senza egemonia, ecco in effetti la sostanza del New Labour. Ma ciò non significa nulla. D’accordo, non è possibile pensare di ottenere qualcosa solo attraverso la macchina elettorale. Ma è anche difficile capire come le lotte possano avere successo senza far parte di un insieme. Dobbiamo riappropriarci dell’idea che la battaglia egemonica nella società va vinta su diversi fronti contemporaneamente.

La critica neoanarchica è pericolosa perché essenzializza lo stato, la democrazia parlamentare  e i “mainstream media”: ma nessuna di queste istituzioni resta stabile per sempre. Si tratta di terreni mutevoli sui quali lottare, e la cui configurazione odierna è essa stessa il risultato delle lotte precedenti.

Fisher inoltre rimprovera i movimenti scesi in strada per aver trascurato la politica sui luoghi di lavoro e nel quotidiano e inoltre aggiunge “quando non esiste qualcosa di simile a una struttura di partito, manca anche la memoria istituzionale  e si tende a ripetere sempre gli stessi errori“.

Contro l’indignazione

Per il principio della fottuta risonanza, resto piacevolmente sorpresa quando anche nelle parole di Fisher leggo una sonora critica al sentimento dell’indignazione, già apprezzata in Caparròs

L’indignazione non è soltanto un sentimento impotente, ma anche controproducente, perché alimenta lo stesso nemico che dichiariamo di voler combattere. (…) visto che esiste una riserva infinita di cose per cui indignarsi, la tendenza all’indignazione ci tiene intrappolati in una serie di battaglie difensive, combattute in territorio nemico e alle sue condizioni. (…) l’indignazione riflette un fondamentale fraintendimento politico, sia nei confronti dei nostri avversari sia della guerra che stiamo combattendo. Tale indignazione, come spiega Wendy Brown nel suo fondamentale saggio “Moralism as Anti-Politics”, “raffigura implicitamente lo stato (e altre grandi istituzioni) come se non fosse caratterizzato da uno specifico collocamento politico ed economico, come se non fosse il prodotto di varie forze sociali dominanti, ma soltanto un genitore malaccorto che ha dimenticato la sua promessa di trattare tutti i figli allo stesso modo”.

La malattia mentale, problema politico

Già in altri suoi scritti si trovano cenni sul tema della malattia mentale, cui Fisher è strettamente legato anche per i suoi problemi di depressione, ma qui trovo più compiutamente i suoi pensieri in proposito.

La malattia mentale è stata depoliticizzata, al punto che ormai accettiamo senza problemi una situazione in cui la depressione costituisce oggi la malattia più curata dal sistema sanitario nazionale (NHS). Le politiche neoliberiste implementate dai governi Thatcher negli anni Ottanta e poi proseguite dal New Labour e dall’attuale coalizione hanno condotto a una privatizzazione dello stress. Sotto il regime neoliberista, i lavoratori hanno visto ristagnare i salari e farsi sempre più precarie le condizioni di lavoro e la certezza di un impiego. (Perché la salute mentale è un problema politico, uscito su The Guardian nel 2012)

Ma la vera radice di tali ansie, oggi sperimentate come patologie psichiche individuali, non risiede nella chimica del cervello, quanto piuttosto nel più ampio contesto sociale. Siccome però non esiste più un agente, un mediatore che agisce collettivamente per conto di una classe, non esiste modo di affrontare quel terreno sociale più ampio.

Prospettive

occorre chiedersi perché, nonostante tutto, il realismo capitalista continui a esistere. A mio modo di vedere ciò succede perché il realismo capitalista non ha mai tentato di persuadere la gente che il capitalismo fosse un sistema particolarmente efficace: mirava piuttosto a convincerla che fosse l’unico sistema praticabile e che era impossibile costruire un’alternativa.

Torniamo al realismo capitalista, anzi a quello che dovrebbe soppiantarlo:

È necessario un nuovo realismo, un realismo comunista, che affermi che un’attività economica è sostenibile soltanto se è in grado di pagare un minimo salariale ai lavoratori. (…) Ma il concetto di realismo comunista suggerisce anche un particolare tipo di orientamento. Non si tratta di attendere il grande evento, scommettendo tutto su una trasformazione finale e improvvisa. Né di utopismo, che cede al nemico tutto ciò che è “realistico”. Si tratta di valutare in modo responsabile e pragmatico le risorse a nostra disposizione qui e ora, e di riflettere su come utilizzarle al meglio e incrementarle. Di muovere – magari lentamente, ma con assoluta determinazione – da dove ci troviamo oggi a un luogo molto diverso.

Il capitale è indifferente a tutto, ma gli esseri umani non possono fare a meno di prendersi cura gli uni degli altri. Nonostante l’atteggiarsi del realismo capitalista, è sotto gli occhi di tutti che gli esseri umani continuano a impegnarsi in pratiche di salvaguardia e arricchimento reciproco, pratiche che, per giunta, rimangono per loro più importanti di qualunque altra cosa il capitale possa offrirgli.

Il libro che non leggeremo

Leggendo Mark Fisher mi è capitato spesso di pensare a cosa scriverebbe dell’oggi, se fosse ancora qui. Il rammarico aumenta pensando al progetto di libro a cui aveva iniziato a lavorare, e del quale possiamo leggere solo un’introduzione non definitiva, posta alla fine della raccolta degli scritti politici. Dal titolo di lavoro Comunismo acido, avrebbe dovuto ripercorrere gli anni Sessanta e Settanta per comprendere l’ascesa del realismo capitalista e decostruirne le narrazioni per edificarne di nuove. Doveva essere un “controesorcismo” dello spettro di un mondo che potrebbe essere libero: “ho battezzato tale spettro con il nome di “comunismo acido”. (…) è una provocazione e insieme una promessa. Una sorta di scherzo, ma i cui obiettivi restano piuttosto seri. Indica qualcosa che a un certo punto sembrava inevitabile, mentre oggi appare impossibile”:

L’ipotesi di questo libro è che gli ultimi quarant’anni siano stati dedicati a esorcizzare “lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero“. L’adozione del punto di vita di quel mondo ci consente di capovolgere la prospettiva di molte delle recenti battaglie della sinistra. Invece di cercare di sconfiggere il capitale, faremmo meglio a concentrare lo sguardo su ciò che il capitale tenta costantemente di ostacolare: la capacità di produrre, di prenderci cura di cose e persone e di godere collettivamente. (…) La nostra vittoria in pratica dev’essere fondata sulla semplice consapevolezza che, piuttosto che “creare ricchezza”, il capitale impedisce sempre e necessariamente la produzione di ricchezza comune.

Capitalismo: un sistema che genera penuria artificiale per produrre penuria reale; un sistema che produce penuria reale per poter generare penuria artificiale. La penuria effettiva (penuria di risorse naturali) oggi perseguita il capitale, in quanto Reale che la sua fantasia di espansione infinita deve sforzarsi di reprimere di continuo. La penuria artificiale, che è essenzialmente una penuria di tempo, è necessaria, sostiene Marcuse, per distrarci dalla possibilità immanente di libertà.

Anche qui torna distintamente la questione delle classi sociali, in uno scorcio storico davvero suggestivo:

Siamo in ogni caso ben lontani dalla scomparsa delle classi sociali strombazzata più tardi dagli ideologi neoliberisti. Gli accordi tra lavoro e capitale raggiunti in paesi come Stati Uniti e Gran Bretagna accettavano l’esistenza delle classi come un aspetto naturale dell’organizzazione sociale. Davano per scontata l’esistenza di interessi di classe diversi che dovevano essere riconciliati, e il fatto che qualunque forma di governo efficace, per non dire giusta, avrebbe dovuto includere anche le organizzazioni operaie. I sindacati erano potenti, imbaldanziti nelle loro richieste dal basso tasso di disoccupazione. I lavoratori avevano aspettative alte: alcuni miglioramenti erano stati ottenuti, ma senza dubbio si poteva chiedere molto di più. Allora era facile supporre che le precarie tregue tra capitale e lavoro sarebbero finite non con una rinascita della destra, ma con l’accettazione di politiche più marcatamente socialiste, se non proprio con il “comunismo pieno” che secondo Nikita Krusciov si sarebbe affermato entro il 1980. Dopotutto la destra era sulla difensiva (o almeno così si pensava), screditata e forse colpita a morte negli Stati Uniti dal prolungato e terribile fallimento della guerra in Vietnam. Il “sistema” non ispirava più la deferenza istintiva dei cittadini: al contrario, era considerato esaurito, antiquato, superato, mentre attendeva malfermo di essere spazzato via dalle nuove ondate culturali e politiche che stavano erodendo le vecchie certezze.

Questo affresco non è un elogio del passato contrapposto al presente, anzi come dice Fisher in un altro passaggio, ciò che deve distinguere la destra dalla sinistra “è la dedizione all’idea che la liberazione sta nel futuro, non nel passato“. Per questo motivo, e sono le ultime parole del lavoro incompiuto, 

È necessario ritrovare l’ottimismo di quella fase degli anni Settanta, esattamente come lo è analizzare nei dettagli i meccanismi dispiegati dal capitale per trasformare la fiducia in sconforto. Comprendere la lofica di un simile processo di logoramento della coscienza è il primo passo per invertirne la direzione.

Quello che penso di aver capito leggendo Fisher fino ad ora è che seguiva, consapevolmente o meno, il materialismo. Sicuramente non si definiva leninista, non so marxista, ma mi azzardo a sostenere che inconsapevolmente fosse sia l’uno che l’altro.

 

La fame

Questo libro è un fallimento. Prima di tutto, perché ogni libro lo è. Ma soprattutto perché un’esplorazione del maggior fallimento vissuto dal genere umano non poteva che fallire.

la fame

Scrivere una recensione del libro La fame non è semplice, forse la cosa migliore da fare sarebbe dire “leggetelo!” e chiuderla lì. Però il testo è così denso e importante che non sarebbe giusto farlo passare, scivolare via come se fosse un libro qualunque. Non lo è. Dovrebbe essere una lettura fondamentale per chiunque creda che viviamo nel migliore dei mondi possibili, per chiunque creda che forse non è così, ma non ci possiamo fare niente, e per chiunque sa o intuisce già che il sistema così com’è non va bene e che occorre fare qualcosa. Il libro non dà facili soluzioni, però risponde in maniera più che esaustiva a tutti i profeti del TINA, ai cultori del capitalismo, alla chiusura mentale che non ci possiamo permettere. È un pugno allo stomaco, doloroso ma comunque apprezzabile, seppure non si possa dire che sia bello per ciò che racconta. Centotrentaquattro (134) volte ho sottolineato una o più frasi, per cui la mia abitudine di attingere a piene mani dalle citazioni deve darsi una ridimensionata, o rischio di scrivere un altro libro. Selezionarle è stato impegnativo, ci ho messo tanto tempo anche solo a rileggerle. Ne ho scelte circa venticinque alla fine.
Il libro è scevro da facili pietismi, è chiaro e determinato sulla beneficenza e sulla seppur meritoria opera delle tante ONG che sono solo gocce nel mare: “Gli alimenti che vengono concessi come aiuti rappresentano lo 0,015 per cento di quelli che il mondo consuma: un grande progresso sulla via verso il niente”.

Per scrivere questo libro Caparròs è stato in Niger, India, Bangladesh, Stati Uniti, Kenya, Argentina, Sud Sudan, Madagascar, Spagna.

Aisha, che mi diceva quanto sarebbe stata diversa la sua vita con due vacche. Se proprio devo spiegarlo – non so se devo spiegarlo – : niente mi ha colpito di più di capire come la povertà più crudele, la più estrema, sia quella che ti ruba anche la possibilità di pensarti diverso. Quella che ti lascia senza prospettive, senza neanche desideri: condannato per sempre alla stessa situazione inevitabile.

(…) Questa miseria che consiste anche nel non credere né aver imparato né sospettare che esistono altre vite e che le altre vite non sono sempre soltanto degli altri. Non è solo un restringimento delle frontiere materiali; anche di quelle mentali, la riduzione dell’orizzonte di ciò che è possibile immaginare (…) Il futuro è il lusso di coloro che si nutrono.

“Come cazzo riusciamo a vivere sapendo che succedono queste cose?” è un mantra che si ripete, quando si raccolgono le voci, i luoghi comuni, rassegnati. “Ma la fame non esiste al di fuori delle persone che la patiscono. L’argomento non è la fame; sono quelle persone”. Mentre la carestia si spiega facilmente, ha carattere episodico ed eccezionale, la malnutrizione è più diffusa e rappresenta la banalità del male.

La pericolosità delle malattie è sempre stata, in qualche misura, una questione di classe. È sempre stato così, ma mai come adesso: con i progressi della medicina e dell’industria farmaceutica, avere o non avere denaro è la condizione più importante per sapere se si guarirà o non si guarirà.

Raccontando il Niger, la sua situazione particolare, Caparròs riflette su quanto sia facile cadere nel cliché “(…) ho impiegato del tempo per accorgermi di essermi arreso a una certa ideologia. Non c’è una fame strutturale, inevitabile. Ci sono sempre cause, ragioni, decisioni”. Nel 1970 c’erano 90 milioni di denutriti in Africa, nel 2010 erano più di 400 milioni, quindi qualcosa dev’essere andato storto. Diverse volte l’autore ripete che non c’è niente di fatalistico o immutabile nell’assetto socioeconomico globale e mi sembra un primo punto fermo tanto necessario quanto poco considerato.

Per pigrizia, ignoranza o chissà quale altra grande virtù siamo soliti pensare che la storia del mondo potesse essere soltanto così come è stata. È l’arma più efficace di chi preferisce farci accettare il mondo così come è: ciò che è stato è ciò che doveva essere – e ciò che è, è anche ciò che deve essere o, al limite: l’unica possibilità.

Sembra una sciocchezza, ma il mito più forte in quest’epoca di cambiamenti incessanti è che non ci sono cambiamenti possibili nell’essenziale, nell’ordine che ordina le nostre vite.

La presunta naturalità del capitalismo è strettamente collegata alla presunta naturalità dell’istituto della proprietà privata:

(…) non c’è maggior successo ideologico del rispetto della proprietà privata. La base miracolosa di tutto l’edificio. Il fatto sorprendente che, in genere, i padroni non hanno bisogno di usare la violenza per impedire a qualcuno di prendersi quello che gli serve quando se lo vede sotto il naso.

Il capitalismo e il suo concetto di proprietà privata si presentano come la forma naturale. E, pertanto, accettarlo è realistico. Ci sono risposte e sono, ovviamente, politiche: stabilire che accettarlo è una scelta. Non accettarlo è un’altra, opposta; non garantisce il cambiamento: soltanto che uno vorrebbe che cambiasse.

Pertanto, senza possibilità di esagerazioni: questo è il mondo che il capitalismo e la democrazia americani hanno creato. La povertà e la fame di tutti quei milioni di persone sono il risultato di questo mondo – non un errore di questo mondo. Il fatto che – quando non pensiamo – pensiamo il contrario è uno dei suoi grandi successi. E tutta la sua strategia consiste nel considerarlo un errore passeggero e correggibile.

Gli aiuti umanitari, nel migliore dei casi, sono un tentativo, con le migliori intenzioni, di correggere certi errori ed eccessi del sistema: di sostenerlo. Anche se – come tutto – ammettono descrizioni diverse.

Ed è facile il passaggio da “La fame, il più grande problema risolvibile del mondo” a “Il capitalismo, il più grande problema risolvibile del mondo”. Sulla proprietà privata cita anche Oscar Wilde: “Ricorrere alla proprietà privata per alleviare i terribili mali che derivano dall’istituzione della proprietà privata medesima è un atto, oltre che ingiusto, profondamente immorale”. Ed effettivamente succede proprio questo:

c’è una strana logica nel dover ringraziare i grandi capitalisti che per secoli si sono appropriati del prodotto del lavoro di milioni di persone perché adesso sono gli unici che possono investire un po’ di soldi per continuare ad appropriarsene. (…) Di nuovo: si vantano di creare posti di lavoro come se questo li trasformasse in benefattori dell’umanità – o almeno di quel pezzetto di umanità che lavora nei loro campi. Di nuovo, ancora: il plusvalore. Se impiegano gente è perché possono prendersi una parte importante del valore prodotto dal lavoro di quella gente; se impiegano quella gente – gli abitanti di quel determinato luogo – è perché possono pagarli infinitamente meno rispetto a quanto gli costerebbe nei loro luoghi di origine. Ma ritengono – e non sono gli unici – che i loro operai dovrebbero ringraziarli perché li sfruttano.

Che esistano paesi come il Bangladesh, che esistano milioni di operai che lavorano per 40 dollari al mese è la condizione necessaria per l’ordine mondiale: non soltanto perché producono merce economica che miliardi di persone consumano, ma anche perché dànno un determinato aspetto alla mappa dell’industria – che passa dai paesi più prosperi, dove nessuno lavorerebbe per quelle cifre, a questi dove invece sì. “Dobbiamo delocalizzare un certo tipo di produzione nei paesi in cui avremo una maggiore redditività, così potremo mantenere un alto livello di guadagno che ci permetterà di investire nella ricerca e nelle innovazioni” dichiarava al New York Times un grande imprenditore americano. Un’altra funzione del progresso tecnico: giustificare il più violento capitalismo. Se non fabbricassimo questo con lavoratori supersfruttati, non guadagneremmo a sufficienza per continuare a “innovare”, dicono, e fanno una faccia seria, capitani del domani trasformato in mercato.

Nel libro c’è spazio anche per la bioingegneria e gli OGM, che non vengono criticati in quanto tali ma sempre nell’ottica del loro utilizzo capitalistico:

La proprietà privata della riproduzione è una grande invenzione contemporanea. È un’espressione brutale dell’idea di proprietà: non su un capo, non sul prodotto di quel campo, ma su un modello naturale – il seme – che soltanto il “padrone” ha il diritto di produrre: la proprietà intellettuale della natura. Tutto il processo è una sintesi del modo in cui funziona il capitalismo: gli scienziati raggiungono un progresso tecnologico che può giovare a milioni di persone. Ma lavorano per un’azienda privata, quindi la compagnia tiene per sé i risultati. E, dietro di loro, gli Stati hanno la funzione di garantire che le aziende riscuotano: con le leggi sui brevetti si assicurano che tutti li paghino. In questo schema il progresso tecnologico non è un tentativo di migliorare la vita ma di fare in modo che alcuni accumulino più ricchezza.

Il racconto è potente perché lo è l’argomento, ma la prosa ha una sua parte notevole ed è decisamente all’altezza e per rendere l’idea inserisco uno dei passi che considero particolarmente successivi ancorché terribilmente reali:

I sacchetti neri che volano sulla campagna. I sacchetti di plastica nera che volano sulla campagna. I sacchetti di plastica nera del mercato che svolazzano in tutti gli angoli del Niger, dispersi dalla modernità, residui della modernità che qui arriva soltanto quando diventa un residuo.

L’analisi del capitalismo e della proprietà privata sono in qualche modo impeccabili. L’unica nota che mi sento di dover fare è quando contrappone i poveri dei paesi ricchi ai poveri degli altri paesi affermando inoltre che manca ormai la base economica comune su cui si fondava il “proletari del mondo unitevi”. In realtà non è così perché ancora oggi ciò che accomuna i lavoratori di tutto il mondo, ancor più che in passato, è la mancanza della proprietà dei mezzi di produzione, accentrata nel capitale in maniera se possibile più pervasiva rispetto ai tempi in cui scrivevano Marx ed Engels.

Quello che c’è di fondamentale nel libro è la spietata analisi del perché ancora oggi sia drammaticamente attuale il tema della fame nel mondo. In realtà non è che manchi cibo, perché ce n’è in sovrabbondanza. Tra l’altro c’è da notare un “dettaglio” che potrebbe stupire:

Il consumo mondiale di alimenti sembra molto variegato, ma tre quarti del cibo consumato nel pianeta è costituito da riso, grano o mais; da solo il riso costituisce metà del cibo mondiale. Dico: metà di tutto il cibo che noi sette miliardi di umani mangiamo ogni giorno è costituito dal riso.

Il consumo di carne invece, è molto ineguale. “Mangiare carne è uno sfoggio bestiale di potere”. A noi sembra normale consumare carne anche quotidianamente, ma non molto tempo fa era un lusso per pochi, ed in realtà per buona parte della popolazione mondiale è ancora così. Non solo, potrebbe tornare ad esserlo per tutti. Al più i cinesi con il loro incredibile miglioramento contribuiscono ad aumentare in maniera significativa il consumo di carne oltre l’Occidente. E sui cinesi c’è un discorso più ampio da fare., perché ancora oggi un miliardo e quattrocento milioni di persone vivono in povertà estrema.

E, di fronte a loro, la frase più classica del liberalismo trionfante sul suo miglior mezzo di informazione, The economist: “nonostante due secoli di crescita economica, oltre un miliardo di persone vivono in povertà estrema”. Dove l’accento è sul “nonostante”: per insistere sul fatto che l’economia degli ultimi due secoli non è la causa di quella povertà estrema”.

Eppure ci sono gli sforzi della comunità internazionale, di tantissime organizzazioni che si impegnano meritoriamente. Nel 2010 erano in povertà estrema 1,9 miliardi di persone. Ora dicono che sono 1,2 anche se secondo la Banca mondiale sono 1,4. Ad ogni modo nell’ipotesi migliore si parla di

(…) 700 milioni di persone in meno. In quel periodo, circa 600 milioni di cinesi sono usciti dalla soglia della povertà estrema grazie allo sviluppo economico del loro paese. Cioè: una grande maggioranza della popolazione che è uscita dalla povertà estrema in questi vent’anni sono i cinesi che grazie allo sviluppo economico del loro paese si sono integrati in un sistema sempre più diseguale ma molto più ricco. Cioè: quasi tutta la riduzione della povertà è avvenuta nel Paese in cui gli organismi internazionali non hanno avuto la minima influenza, dove non gli è stato permesso di attuare le loro politiche. Il che non impedisce a quegli organismi di vantarsi comunque dei loro risultati: la riduzione della povertà estrema.

Nel frattempo la fame rappresenta sempre il rischio maggiore per gli abitanti dell’Altro Mondo, come lo chiama Caparròs, perché uccide ogni giorno più persone di AIDS, malaria e tubercolosi messi insieme. Tutto questo mentre l’aspettativa di vita cresce, sì, ma solo se nasci nella parte “giusta” del mondo.

Sarebbe semplice sentenziare che chi ha fame è perché è povero, ma si tratta di “pura mistificazione retorica”:

povertà e fame non hanno una relazione causa-effetto; in realtà condividono la stessa causa. Sono forme della stessa privazione, dello stesso esproprio. La principale causa della fame nel mondo è la ricchezza: il fatto che una minoranza si prenda ciò di cui molti hanno bisogno, compreso il cibo.

Non è sufficiente come spiegazione neanche la corruzione dilagante di molti paesi, perché “quello che rubano non è niente in confronto a quello che perdono i loro paesi e i loro cittadini a causa dell’ordine internazionale in cui sono integrati da un secolo e mezzo”. Ma anche dividere la colpa tra il sistema e la corruzione dei governanti non risolve l’equazione: “entrambe le cose sono vere – e questo rende meno vera ognuna di queste se la si enuncia come ragione unica. Ed entrambe aggirano il problema della proprietà privata e della distribuzione della ricchezza, quelle minuzie”.

Anche senza fare nulla di particolare, abbiamo la nostra parte di colpa perché come abbiamo detto la fame non deriva dalla povertà ma dalla ricchezza. Quando diciamo che siamo complici si potrebbe fare l’errore di pensare che ad esempio il nostro essere grassi è cibo rubato agli affamati, ma non è vero neanche questo: “al contrario è vero che le stesse industrie che ci riempiono di spazzatura controllano i mercati e si accaparrano i cibi di cui potrebbero nutrirsi quelli che non mangiano. I grassi e gli affamati sono vittime – diverse – della stessa cosa. Chiamiamola disuguaglianza, capitalismo, la vergogna“.

(A volte non mi sembra sorprendente che adesso, ogni giorno, lasciamo che tanta gente muoia di fame: che non ci importi, che sappiamo guardare così bene da un’altra parte. Siamo, in ultima analisi, gli stessi che eravamo settant’anni fa, gli stessi che lo fecero già settant’anni fa, quando c’erano Hitler e Stalin e Roosevelt e i campi e le bombe).

Adesso dare da mangiare agli affamati dipende soltanto dalla volontà. Se c’è gente che non mangia a sufficienza – se c’è gente che si ammala di fame, che muore di fame – è perché chi ha il cibo non vuole darlo a quella gente: noi che abbiamo il cibo non vogliamo darlo a quella gente. Il mondo produce più cibo di quanto ne occorra ai suoi abitanti; tutti sappiamo chi non ne ha a sufficienza; mandare a quelle persone ciò di cui hanno bisogno può essere una questione di ore. Questo è ciò che rende la fame attuale, in qualche modo, più brutale, più orribile rispetto a quella di cento o mille anni fa. O, per lo meno, molto più eloquente su ciò che siamo.

Il denaro della nostra prosperità è denaro molto insanguinato. Non è piacevole riconoscere che a pagare è la fame di milioni di persone. Non dovrebbe risultare così comodo, così facile, così economico.

Caparròs è netto nei giudizi anche sulle religioni, ha parole definitive su Madre Teresa e anche su Amartya Sen (“non mette in discussione l’idea di proprietà”), ci ricorda che l’urbanizzazione crescente non è solo belle città ma soprattutto immense baraccopoli, critica il nazionalismo, arma spuntata del capitale per dividere il “nemico”: “la nazionalità è una riduzione dell’umanità: la legittimazione di un certo egoismo”. Critica la retorica del 99% che prendeva piede negli anni in cui scriveva il libro e anche quella degli indignados. La prima “mette in discussione il tema della ricchezza estrema – ma non il tema della ricchezza, della proprietà, delle forme di appropriazione della ricchezza”. La seconda sembra una posa: “mi sembra un sentimento elegante, controllato, di chi ha a disposizione alternative: ah, ma questo m’indigna, mio caro”.

Mi sembra chiaro che potrei continuare a riprendere citazioni, ma il post è già lunghissimo e poi, se non l’avete capito, dovete leggerlo questo libro! Chiudo con una citazione che mi sembra possa andare bene come conclusione:

Per me invece si tratta di ideologia: sapere come si fa per non avere più poveri del mondo – non per dargli qualche briciola in più, le briciole sufficienti. E questa è un’ideologia, senza alcun dubbio. Per questo l’enorme campagna di discredito delle ideologie: perché per ottenere cambiamenti bisogna volerli, avere idee – un'”ideologia”. Tra le altre cose, perché l’unico motivo per il quale c’è la fame in un mondo che produce abbastanza cibo è un’altra ideologia. Quella che dice di non esserlo, che si presenta come la natura stessa: quella che sostiene che il mio è mio – e il tuo poi vedremo. Per un ragazzo degli anni Sessanta – per un adulto degli anni Dieci – è strano che tanti credano che sia quella l’unica opzione. Anche se lo fosse converrebbe pensare di no, per metterla alla prova. Il problema è che viviamo un tempo senza futuro. (O, peggio: dove il futuro è una minaccia).

Quello era l’anno

quello-era-lanno

Che anno! Se fosse vissuto per dodici vite, avrebbe mai visto niente di simile a quei dodici mesi?

Di riletture ho già parlato a proposito di Realismo capitalista di Mark Fisher, quindi non mi ripeto, però vorrei spendere due parole riguardo la “fottuta risonanza”, quelle coincidenze che non sembrano tali, quei richiami imprevisti eppure necessari una volta colti, quelle epifanie nel ritrovarsi a (ri)leggere un libro esattamente nel momento giusto. Così, ho riletto Quello era l’anno di Dennis Lehane perché mi sono resa conto che è il primo di una trilogia sul protagonista e mi ero procurata il terzo pochi mesi fa, quindi ho deciso di ripartire daccapo; la prima volta infatti lo lessi diversi anni fa e conoscendo la mia memoria da pesce rosso ho avuto piacere nel cimentarmi di nuovo nell’atmosfera della Boston di un secolo fa. Il libro è infatti ambientato sul finire della Prima guerra mondiale e affronta le vicende del nascente sindacato di polizia cittadino, la sua tentata affiliazione al più grande AFL-CIO (che sta per American Federation of Labour – Congress of Industrial Organizations, e nel frattempo leggo le proteste contro lo stesso, perché disconosca il sindacato di polizia!)

photo5175122738128464130
e il primo sciopero dei poliziotti di Boston, sullo sfondo di un paese orgogliosamente razzista in cui ovviamente vigeva ancora una netta separazione sulla linea del colore, oltre che su quella di classe. Scrivendo di Moonlight mile avevo già accennato alla capacità di Lehane di descrivere la working class nelle sue storie. Qui si vede perfettamente anche la linea del colore, appunto intrecciata sempre con la linea di classe, che resta la prima discriminante cent’anni fa come ora.

“Ah, sì! Hai fatto un buon lavoro da noi e cercheremo di trovarti un posto, un modo per tirare avanti, ma i ragazzi… quelli che tornano, sono tantissimi, Hanno combattuto duro laggiù, e lo Zio Sam… insomma vuole ringraziarli”. “Va bene.” “Ascolta,” disse Bill un po’ frustrato come se Luther stesse per attaccare briga “tu capisci, no? Non vorrai costringerci a mettere in strada quei giovani, quei patrioti. Voglio dire, come sarebbe? Non sarebbe giusto, te lo dico io. Non potresti andare per la strada a testa alta vedendo uno di loro che cerca lavoro mentre tu intaschi una bella paga”.

Luther non disse niente. Non disse che molti di quei giovani, di quei patrioti che avevano rischiato la vita per il loro paese, erano ragazzi di colore, e che di sicuro il suo posto non sarebbe andato a nessuno di loro. Diavolo! Era sicuro che se fosse tornato in fabbrica di lì a un anno, le uniche facce di colore sarebbero state di quelli che facevano le pulizie, impegnati a svuotare i cestini della carta straccia e a raccogliere i trucioli di metallo dal pavimento.

Non è necessario riferirsi alla rinascita del movimento Black Lives Matter per testimoniare come la questione razziale negli USA sia comunque da sempre all’ordine del giorno, connaturata non al sistema di governo ma a quello socioeconomico, e che quindi sopravvive a qualunque legge o tentativo di riforma che non coinvolga il sistema nel suo complesso. Ad ogni modo è davvero interessante leggere proprio in questo frangente le vicende dei neri americani in un momento, come quello dell’immediato primo dopoguerra, in cui la paura rossa la faceva da padrona nella società statunitense (e non solo).

“Cosa crede? Crede che quattro gatti di colore si metteranno a correre armati per queste strade? Che daremo a lei e agli stronzi razzisti la scusa per ammazzarci tutti? Crede che vogliamo farci massacrare?” Levò lo sguardo e vide che McKenna stringeva il pugno. “C’è una combriccola di stranieri, figli di puttana, che vogliono fare la rivoluzione oggi, e allora, vada a prenderli, li ammazzi come cani. Non ho simpatia per loro. Nessuno di colore ha simpatia per loro. Questo paese è anche nostro”.

McKenna indietreggiò di un passo e lo guardò con un sorrisino ironico. “Cos’hai detto?”

Luther sputò per terra e respirò a fondo. “Ho detto che questo paese è anche nostro”.

“No, ragazzo, non lo è. Non lo sarà mai.”

La scrittura di Lehane è avvincente e coinvolgente anche uscendo dallo schema di genere, perché questo libro, ben più lungo dei suoi thriller, ha sicuramente respiro più ampio. Le capacità narrative e descrittive dell’autore giganteggiano ed emergono prepotentemente anche nella serie Kenzie-Gennaro, e riescono ad avere uguale se non maggiore incisività nelle storie che esulano dal genere. Sono naturali e a volte magici i dialoghi tra i personaggi e in generale Lehane riesce a dipingere un affresco della società terribilmente reale, come penso si possa osservare leggendo alcuni brani:

Pensava che per costruire un posto così ci sarebbe voluto un secolo, ma questo paese non aveva tempo di aspettare, non gli interessava la pazienza e non aveva neppure motivo di averne.

“Voi americani… non avete storia. Soltanto il presente, adesso, adesso, adesso. Voglio questo adesso, voglio quello adesso.” Danny provò un improvviso moto di irritazione. “Eppure tutti hanno una furia indiavolata di andarsene dal loro paese e venire qui”. “Ah, sì. Le strade pavimentate d’oro. La grande America dove si diventa ricchi. E quelli che non ci riescono? E gli operai, caro il mio poliziotto? Lavorano, lavorano, lavorano, e se il lavoro li fa ammalare si sentono dire: “Be’, vai a casa e non tornare”. Si fanno male sul lavoro? La stessa cosa. Voi americani parlate di libertà, ma io vedo schiavi che si credono liberi. Vedo grandi aziende che sfruttano i bambini e le famiglie neanche fossero maiali e…”.

“Il fondamento del capitalismo, signori, è la produzione o l’estrazione di merci con lo scopo di venderle. Ecco qual è. Il fondamento di questo nostro paese. Gli eroi di questo paese non sono i soldati, gli atleti, neanche i presidenti. Gli eroi sono gli uomini che hanno costruito le nostre ferrovie e le nostre automobili, i nostri cotonifici e le nostre fabbriche. Sono loro che mandano avanti tutto. E gli uomini che lavorano per loro devono essere grati di far parte del processo che plasma la società più libera del mondo”. Tese le mani e diede una pacca a Luther su entrambe le spalle. “Eppure, incredibile, da qualche tempo non sono più grati”.

“Compagni, osservate quello che fa una società corrotta per conservare l’illusione di se stessa. La chiamano la Terra degli uomini liberi, ma dov’è la libertà di parola? Dov’è la libertà di riunione? Non oggi, non per noi. Abbiamo seguito la procedura. Abbiamo chiesto l’autorizzazione a manifestare in corteo, ma questo diritto ci è stato negato. Perché?” Fraina volse lo sguardo sulla folla. “Perché hanno paura di noi”.

Lehane scrive di poliziotti. In questa storia la polizia si trova in una situazione particolarmente difficile, come servizio pubblico non gli sono riconosciuti i diritti degli altri lavoratori, dopo la guerra si ritrovano tra i più poveri dopo promesse di aumenti e adeguamenti al costo della vita disattese, rispetto alla classe lavoratrice sono altro.

Danny non poteva fare a meno di sorprendersi per l’ironia della sorte – quegli uomini che per lavoro disperdevano gli scioperanti si ritrovavano nelle stesse situazioni senza sbocco di quelli che malmenavano o picchiavano davanti alle fabbriche e agli stabilimenti.

Non c’è lieto fine nelle rivendicazioni della polizia e non ci sono neanche risposte nette. La complessità della questione si scontra con un arretramento delle coscienze che oggi è decisamente superato. Da BLM a Defund the police sicuramente i passi in avanti sono incredibili, il momento oggi si spinge molto oltre. Da noi è più difficile articolare un discorso del genere, siamo il paese dove si travisa regolarmente un gigante come Pasolini per assecondare la retorica delle forze dell’ordine come classe lavoratrice, piuttosto che riconoscere la loro essenza: tutela dello status quo e quindi dell’ordine borghese, cosa che Pasolini ovviamente avrebbe sottoscritto.

A proposito di complessità, è caratteristica pure dei personaggi ed in effetti dell’animo umano. Mal tollero i personaggi bidimensionali, l’assenza di sfumature e la distinzione netta tra bene e male perché la realtà è ben diversa. Per questo motivo apprezzo chi riesce a rendere tale complessità reale su carta e/o su pellicola e Lehane è sicuramente molto bravo, dimostrandosi fine conoscitore della natura umana.

“L’esplosione non è stata un atto terroristico.” “Ma la rabbia rimane”. Ridacchiò. “Siamo noi i più sorpresi. Pensavamo che il giudizio affrettato sul disastro ci avrebbe fatti fuori. Tutto il contrario. La gente non vuole la verità, vuole certezza“. Si strinse nelle spalle. “O l’illusione della certezza”.

“Con, però li odia”. “Sì. Ha molto odio dentro di sé”. Joe finì l’ultimo pezzo del secondo wurstel. “Perché?” Danny si strinse nelle spalle. “Forse perché, vedendo molte cose che lo mettono in confusione, vuole subito una risposta. E se non trova quella giusta, allora prende la prima che gli capita e si dice che è la risposta“.

Gli uomini non amano i cambiamenti. Non vogliono sconquassi. Vogliono poter bere qualcosa di fresco nelle giornate calde e trovare il piatto pieno in tavola.

Gli uomini dovevano fare qualcosa per coloro che amavano. Semplice. Puro e semplice. Si era lasciato risucchiare, ingannare dal bisogno di muoversi – in qualunque luogo, momento e modo – e alla fine aveva dimenticato che il movimento ha bisogno di uno scopo.

Il libro è lungo ma si lascia leggere velocemente, io ho rallentato solo per motivi di tempo sennò lo avrei divorato. Prossimamente leggerò il secondo e il terzo con protagonista un Coughlin e spero di poterne scrivere con lo stesso entusiasmo.

“Che c’è da ridere?” gli chiese Lila. “Tutto”.

Parasite Eve (with lyrics)

I’ve got a fever, don’t breathe on me
I’m a believer in nobody
Won’t let me leave ‘cause I’ve seen something
Hope I don’t sneeze, I don’t *sneeze*

Really we just need to fear something
Only pretending to feel something
I know you’re dying to run
I wanna turn you around

È ancora evidentemente presto per dire se gli storici di domani stabiliranno in maniera convenzionale che il XXI secolo sarebbe iniziato con l’11 settembre, con la crisi del 2008 o con la pandemia del 2020. La percezione oggi per me, che ho vissuto in maniera diretta tutte e tre questi pointbreak, è che quest’ultima sia la più straordinaria, nel senso etimologico del termine, non perché non ci siano state pandemie ugualmente o maggiormente letali in passato, quanto per le sue conseguenze rispetto al grado di interconnessione globale, questo sì mai visto prima.

Please remain calm
The end has arrived
We cannot save you
Enjoy the ride
This is the moment
You’ve been waiting for
Don’t call it a warning

This is a war

Che ne siamo consapevoli o meno, questi mesi ci hanno segnato profondamente e per quanto i tentativi, per di più affrettati, di recuperare una presunta tranquillizzante normalità siano numerosi, non dovremmo incoraggiarli. Quello che voglio dire è che non possiamo far finta di nulla, voltare pagina come se nulla fosse successo o come se fosse già passato. Prova e riprova a dirlo Loredana Lipperini, denunciando anche una generale nostra afasia sulla questione, e condivido la sua percezione di non essere più quella di prima.

It’s the Parasite Eve
Got a feeling in your stomach ‘cause you know that it’s coming for ya
Leave your flowers and grieve
Don’t forget what they told ya, ayy, ayy
When we forget the infection
Will we remember the lesson?
If the suspense doesn’t kill you
Something else will, ayy, ayy
Move

Non possiamo far finta di nulla per due ordini di motivi. Il primo è che passato non è, si continua a morire, in altre regioni del mondo non si è ancora raggiunto il picco mentre qui da noi “riapriamo tutto” e anche qui, seppur in sordina, continuano a comparire focolai. Se l’attenzione m

duccio
ediatica cala, si minimizza perché l’imperativo è ormai ripartire, ciò non ci deve trarre in inganno. Piuttosto dovrebbe aiutare a riflettere sulla pretestuosità di tutta una serie di misure adottate nella fase uno volte a criminalizzare la stessa aria, mentre si continuavano (e continuano) a verificare i contagi nei luoghi chiusi e in primis nei luoghi di lavoro. Il secondo ordine di motivi, non meno importante del primo, riguarda le condizioni sistemiche che hanno “permesso” per non dire generato la pandemia, che non riuscirebbero a prevenirne un’altra non troppo remota, né ad affrontarla compiutamente, così come accade oggi.

I heard they need better signal
Put chip and pins in the needles
Quarantine all of those secrets
In that black hole you call a brain before it’s too late

Really we just wanna scream something
Only pretend to believe something
I know you’re baying for blood
I wanna turn you around (Hey)

Per capirci, provo lo stesso disagio che ho percepito più volte nei post di Loredana verso la fretta di ritornare alla normalità; accade quando in luoghi chiusi e (potenzialmente) affollati mi si dice che se voglio posso togliere la mascherina: “eh già il caldo, e pure la mascherina dobbiamo sopportare!” Sarò diventata paranoica, eppure ho criticato duramente la strada scelta per la fase uno, ma proprio per le stesse ragioni – scientifiche – non riesco a capire come il fatto che fin qui in Sicilia e in generale al Sud siamo stati “graziati” ci possa esimere dal mantenere le precauzioni ragionevoli. Allo stesso tempo vedo un sacco di persone sole in auto con la mascherina o peggio ancora sulle biciclette… tutto questo non è stoltezza degli individui ma il risultato di una comunicazione pubblica confusa e in larga misura fuorviante. Ma più ci manca la consapevolezza più a rischio siamo per l’immediato futuro, e anche oltre.

You can board up your windows
You can lock up your doors, yeah
But you can’t keep washing your hands
Of this shit anymore
When all the king’s sources and all the king’s friends
Don’t know their arses from their pathogens

When life is a prison and death is the door
This ain’t a warning
This is a war, war
This is a war, ayy, ayy, oh, oh

(Parasite Eve, BMTH)

(Le prime parole di questo post sono state scritte settimane fa… la riflessione si è ampliata leggendo costantemente, ad esempio, il blog di Loredana Lipperini qui sopra citato e la deflagrazione finale è dovuta all’ascolto del nuovo pezzo dei Bring Me The Horizon del quale ho riportato il testo lungo il post).

I nuovi abiti del capitalismo

morozov

Il tema del capitalismo della sorveglianza è più attuale che mai nel mutato contesto in cui ci troviamo. Rispetto a febbraio, mese in cui ne scrivevo dopo aver letto il libro di Shoshana Zuboff, la situazione è se possibile più ghiotta per questo nuovo abito del capitalismo e trova noi più indifesi e proni nell’accettare le sue forme. Con l’imposizione della DAD ma non solo, emerge ancor più di prima la necessità di una nuova consapevolezza digitale e di strumenti alternativi allo strapotere dei GAFAM (Google, Amazon, Facebook, Apple, Microsoft).

In questo contesto è opportuno ritornare sul frame teorico e riconoscere, dopo aver letto la lunghissima recensione critica di Evgeny Morozov (qui in italiano) che mi dev’essere sfuggito qualcosa, e non si tratta di dettagli. Come dice @kappazeta nel segnalarmi il testo, anche io devo essermi concentrata sugli aspetti di denuncia senza riflettere  troppo sul quadro teorico, probabilmente perché ho dato per scontata la critica al sistema nel suo complesso. In realtà io ho fatto anche qualche accenno (entusiasta!) ai riferimenti teorici ignorando totalmente il quadro d’insieme, per cui è particolarmente illuminante il testo di Morozov. Banalmente mi sono esaltata per aver letto riferimenti a sociologi che apprezzo abbastanza o molto (Braudel, Weber, Polanyi, Bauman) non rendendomi conto dell’impostazione complessivamente fuori fuoco del libro.

Morozov inizia la sua analisi dicendo che la Zuboff afferma in maniera corretta che criticare le Big Tech per le violazioni della privacy “ha fatto perdere di vista la portata della trasformazione”, per proseguire risalendo alle origini del lavoro della Zuboff, una figura comunque lontana da circoli anticapitalisti (professoressa di Harvard, ha lavorato per Business Week, in Italia il suo libro è stato ad esempio pubblicato dalla LUISS, cosa che aveva lasciato perplessa anche me). Ha lavorato sull’impatto dell’Information Technology (IT) sul posto di lavoro per quarant’anni, e, nelle parole di Morozov:

il disallineamento tra il possibile e il reale ha inquadrato il contesto intellettuale in cui, precedentemente cautamente ottimista sia sul capitalismo che sulla tecnologia, ha costruito la sua teoria del capitalismo della sorveglianza, lo strumento più oscuro e distopico del suo arsenale intellettuale fino ad oggi.

Morozov osserva che in precedenti scritti, comunque critici, era completametne assente la parola capitalismo mentre “la proprietà privata, la classe, la proprietà dei mezzi di produzione – la materia dei precedenti conflitti legati al lavoro – erano per lo più esclusi dal suo quadro”. Nel percorso di Shoshana Zuboff ha influito molto, ed è essenziale per comprenderne l’approccio, il suo professore di Harvard Alfred Chandler, “bardo del capitalismo manageriale”, il quale aveva affermato che la mano invisibile di Adam Smith era stata sostituita dalla mano visibile dei manager. Chandler era stato uno studente di Talcott Parsons, padre del funzionalismo, e la storia aziendale che insegnava assomiglia più ad una sociologia funzionalista sotto mentite spoglie “ed è di tipo piuttosto volgare”, chiosa Morozov. Attraverso l’approccio chandleriano scompaiono le relazioni di potere, e la Zuboff adotta lo stesso sistema: elabora un metodo analitico portando gli esempi a conferma piuttosto che mettere a confronto diversi modelli per verificare quale possa risultare migliore. L’autrice si appoggia poi a Schumpeter, altro mentore di Chandler, nel mettere il consumatore al centro del cambiamento storico. All’interno del quadro chandleriano si configurano tre regimi rappresentati da imprese che ne sintetizzano i valori: la General Motors e la Ford e il capitalismo manageriale così come descritto da Chandler; Google e Facebook e il capitalismo della sorveglianza descritto nel suo dispiegarsi da Zuboff; Apple e Amazon (prima di Alexa, specifica) e il capitalismo della promozione dei diritti così come vagheggiato dalla stessa Zuboff.

Un grosso problema delle spiegazioni funzionaliste è che non ammettono l’esistenza di narrazioni alternative. Ad esempio nel corso del libro non c’è alcun riferimento ai concetti di capitalismo delle piattaforme o cognitivo, o neanche biocapitalismo, categorie che permetterebbero di approfondire diverse sfaccettature e allargare lo sguardo dell’analisi.

La struttura Chandleriana, nonostante tutte le sue intuizioni analitiche, è cronicamente cieca alle relazioni di potere, il risultato della sua innata mancanza di curiosità verso le spiegazioni non funzionaliste.

Morozov si lancia poi in un parallelo a prima vista “straniante” tra Shoshana Zuboff e Toni Negri, e più ampiamente il marxismo autonomo italiano. Questi ultimi avevano visto l’IT come forza potenzialmente liberatrice, considerano l’estrazione di valore della fabbrica sociale mentre i capitalisti diventano solo percettori di rendita e la moltitudine si emancipa, e da qui discende la richiesta di un reddito di base universale. È evidente che i percorsi non sono sovrapponibili ma il presupposto della teoria degli autonomi “era un’ipotesi funzionalista”: la capacità del lavoro di essere sempre un passo avanti al capitale. Per chiudere il discorso sugli autonomi italiani, la premessa chiave della loro teoria, dice Morozov, “che il capitale stava diventando esterno al lavoro, consentendo ai lavoratori cognitivi abilitati, ora sparsi attraverso la fabbrica sociale, di autovalorizzarsi, sembra sempre più discutibile”. Resta comunque una differenza fondamentale: mentre il concetto di moltitudine “per quanto ambiguo e fuorviante”, rievoca un soggetto collettivo, per la Zuboff c’è solo il singolo consumatore sovrano.

A metà del testo Morozov si riferisce al proprio preludio “piuttosto lungo di 8 capitoli” e dichiara “questa recensione aspira a competere con il libro nella prolissità”, prima di analizzare nel dettaglio il quadro teorico de Il capitalismo della sorveglianza. Nel libro invece di chiedersi il perché Amazon, Apple e Google siano a caccia di surplus comportamentale, la caccia di surplus comportamentale diventa la causa; una teoria più semplice, afferma, sarebbe la seguente: “le aziende tecnologiche, come tutte le aziende, sono guidate dalla necessità di assicurare una redditività  a lungo termine”. E quindi:

 In effetti, il regime è solo uno – il capitalismo – e usarlo come una categoria analitica aiuta a rimediare a numerose carenze nei confronti del capitalismo manageriale e del capitalismo della sorveglianza.

La centralità della categoria del consumo inficia tutta l’analisi: nel momento in cui non c’è consumo non esiste capitalismo della sorveglianza, così come senza lavoro non c’è capitalismo per Marx: “Pertanto, un hedge fund che impiega satelliti per rilevare il movimento di veicoli vicino a supermercati o magazzini – una pratica comune per misurare il livello dell’attività commerciale di una sede – si trova al di fuori del capitalismo della sorveglianza, rigorosamente interpretato”. A quanto pare per la Zuboff la vera preoccupazione non è la sorveglianza ma la manipolazione del comportamento che ne consegue.

Un’altra critica di Morozov riguarda l’utilizzo improprio dei concetti di ‘spoliazione’ e ‘accumulazione primitiva’ impiegati ignorando la mercificazione: in genere la Zuboff definisce coi primi situazioni che andrebbero definite con quest’ultima espressione. Una delle principali conseguenze denunciate da Morozov è quindi presto spiegata:

Il concetto di capitalismo della sorveglianza sposta il luogo dell’inchiesta e le lotte che informa, dalla giustizia dei rapporti di produzione e distribuzione all’interno della fabbrica sociale digitalizzata all’etica dello scambio tra le aziende e i loro utenti. Per rendere il surplus comportamentale degli utenti (…) così cruciale per la teoria occorre concludere che l’estrazione del surplus da tutte le altre parti non ha importanza, o forse non esiste.

Questo comporta un “passo indietro nella nostra comprensione della dinamica dell’economia digitale” però non tutto è perduto: “anche quadri analitici errati possono produrre effetti sociali benefici”. Che si definisca tale o meno, il capitalismo della sorveglianza ha effetti concreti nel nostro presente e ne siamo tutti in qualche modo investiti, mentre la liberazione invocata anche dagli autonomi. oltre che dai tecnoentusiasti della prima ora, non ha affatto avuto luogo: “Steve Jobs ci ha promesso i computer come ‘biciclette per la mente’; ciò che abbiamo ottenuto sono invece le catene di montaggio per lo spirito”.

Il meccanismo suggerito da Morozov, per cui si può accettare l’utilità politica mentre si respinge la validità analitica del testo è delicato e pericoloso, ma sicuramente ha senso, dato il successo che ha investito il libro e la concreta possibilità che questo aiuti ad aumentare la nostra consapevolezza digitale: “rivisto come un avvertimento contro il sistema dei dati della sorveglianza, il libro regge abbastanza bene”. Dopo aver letto la lunga recensione di Morozov ho riflettuto sulle fallacie di un testo che mi ha in qualche modo travolta e che ritengo fondamentale oggi. Nonostante sia evidentemente flawed, e ringrazio Evgeny Morozov per aver spiegato in maniera accurata il frame teorico in cui si situa, Il capitalismo della sorveglianza, con i dovuti accorgimenti, resta un libro imprescindibile per il nostro presente.

 

 

 

 

Realismo capitalista

realismocapitalista

Tra l’1 e il 2 novembre 2018 lessi Realismo capitalista e ricordo che mi colpì molto. Non sono molti i libri che ho voluto rileggere, ma sicuramente questo rientra tra i pochi fortunati. Curiosamente, dopo che pochi giorni fa ho sentito l’esigenza di rileggerlo ho visto nella timeline di twitter un articolo del bibliopatologo di Internazionale su Dove vanno a finire i libri che abbiamo letto? del quale condivido le conclusioni: “Non si può leggere due volte lo stesso libro, non più di quanto si possa immergersi due volte nello stesso fiume. Lo specchietto a conchiglia in cui ti guardasti ragazzina è uguale oggi a com’era allora, ma ogni volta che tornerai ad aprirlo rifletterà un’immagine diversa”. Ed effettivamente ho riletto il testo di Mark Fisher con uguale voracità eppure ne ho colto spunti nuovi e diversi. Ricordo che all’epoca mi lasciò una strana sensazione di ottimismo, poco spiegabile considerato lo smarrimento politico in cui mi trovavo, praticamente da sempre. Ad oggi quello stesso spirito positivo è forse meno entusiastico e più razionale, oserei dire reale.

A questo proposito, cos’è il realismo capitalista? Nella definizione dell’autore “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”. E ancora: “Per come lo concepisco, il realismo capitalista non può restare confinato alle arti o ai meccanismi semipropagandistici della pubblicità. È più un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione”. L’espressione realismo capitalista ed il suo senso aiutano a spiegare l’impotenza e l’assenza di qualsiasi opposizione al capitalismo durata decenni. Non finisce qui perché attraverso tutto il testo Fisher descrive il capitalismo con la giusta crudezza: “ogni attività è talmente concentrata sulla produzione del profitto da non essere nemmeno più in grado di venderti niente”; con onestà, parlando dei call center come emblema del capitalismo “È nell’esperienza di un sistema tanto impersonale, indifferente, astratto, frammentario e senza centro, che più ci avviciniamo a guardare negli occhi tutta la stupidità artificiale del Capitale”; con lucidità “Il genio supremo di Kafka sta nell’aver esplorato quella specie di ateologia negativa propria del Capitale: il centro non c’è, ma non possiamo smettere di cercarlo né di ipotizzarlo. Non è che però non ci sia proprio niente: è che quello che c’è non è in grado di esercitare le proprie responsabilità”; e ancora “non è che aziende e compagnie siano gli agenti occulti che tutto manovrano; sono esse stesse espressioni e prodotto della massima causa che un soggetto non è: il Capitale”. Queste ultime due citazioni mi riportano ad un tema ultimamente spesso discusso, in particolare con coloro che sostengono come l’attuale pandemia danneggiando alcuni capitalisti dimostri in qualche imprecisato modo l’impotenza del Capitale in sé, o che comunque il capitalismo non riesca a guadagnare dall’attuale impasse. Questi ragionamenti sono fallaci nella misura in cui vedono il capitalismo come un blocco a se stante, una sorta di Moloch che agisce come un corpo unico per il proprio interesse, mentre la storia del capitalismo si erge davanti a noi a dimostrazione del contrario: un sistema fondamentalmente anarchico in cui soprattutto nei momenti di crisi ci sono vincitori e perdenti anche tra i capitalisti, ed è quello che avviene anche in questa fase dove alcuni colossi effettivamente stanno guadagnando dalla messa in “quarantena” delle nostre vite, vedi Amazon, ma non solo, anche la GDO ad esempio, mentre altri piccoli o grandi attori arrancano e molti ne usciranno sconfitti. Lo stesso è accaduto nelle precedenti crisi, ultima quella del 2008, e così andando a ritroso, confermando quello che già Marx aveva intuito con la sua risaputa lungimiranza quando scriveva ne Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte: “(…) per il volgare egoismo per cui il borghese ordinario è sempre disposto a sacrificare l’interesse generale della sua classe a questo o a quel motivo privato”.

Tornando a Realismo capitalista, il secondo capitolo si intitola “Che succederebbe se organizzassi una protesta e venissero tutti?” e tratta ancora del capitale e in particolare della sua incredibile capacità di sussumere tutto, pure ciò che nominalmente gli si oppone, per metterlo a profitto.

Dopo tutto, come Žižek ha provocatoriamente fatto notare, l’anticapitalismo è ampiamente diffuso tra le pieghe del capitalismo stesso: quante volte nei film di Hollywood il cattivo di turno altri non è che qualche cattivissima corporation? È un anticapitalismo gestuale che, anziché indebolire il realismo capitalista, finisce per rinforzarlo.

Di seguito Fisher fa l’esempio del film Wall-E e afferma “il film inscena il nostro anticapitalismo per noi stessi, dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente”. Un po’ come dire che il capitalismo sta su grazie a noi più che nonostante noi: “Quello che dobbiamo tenere a mente, è sia che il capitalismo è una struttura impersonale e iperastratta, sia che questa struttura non esisterebbe senza la nostra cooperazione”.

Un aspetto che rende particolarmente scorrevole e piacevole da leggere il testo è secondo me il sapiente uso di una serie di citazioni, soprattutto cinematografiche, televisive e di testi scritti, di cui vorrei elencare in maniera forse non esaustiva, film e libri per darne un’idea:

elenco fisher

Vorrei fare anche un accenno all’argomento internet. Fisher cita un’intervista al documentarista Curtis che attacca i nuovi media perché creano reti interpassive e bolle in cui ci si ritrova tra individui simili in cui si ripete il bias di conferma, creando ed alimentando continuamente circuiti chiusi. Nel riconoscere la sensatezza di tale analisi Fisher risponde però distinguendo: “un fenomeno come i blog è stato ad esempio capace di generare un discorso nuovo e articolato in una rete che non ha corrispettivi nel campo sociale esterno al cyberspazio. Nel momento in cui i vecchi media vengono sempre più assorbita dalla logica delle public relations e in cui al saggio critico si preferisce la relazione sui consumi, alcune aree del cyberspazio hanno offerto una resistenza a quella compressione critica che altrove è diventata dominante”. Le osservazioni di Fisher si riferiscono ad un periodo che potremmo considerare d’oro per i blog, e Fisher stesso dal 2003 curò un blog, K-punk, che divenne un punto di riferimento di una certa area. Ad oggi i blog hanno avuto sicuramente un arretramento con l’esplosione dei nuovi social media e della loro pervasività. C’è però la speranza e da alcune parti la voglia di restituire centralità ai blog perché il loro potenziale non è affatto esaurito. Come dicevano i Wu Ming in un bellissimo post a fine 2019 annunciando l’abbandono di Twitter:

A chi per ora non se la sente di chiudere gli account sui social commerciali, chiediamo di dare comunque una mano a riattivare voci e canali indipendenti, macchine di comunicazione non gamificate. Chi ha un blog e in questi anni lo ha negletto, torni a scriverci sopra e a promuoverlo, lo rivitalizzi e ne faccia l’epicentro della sua comunicazione quando ha qualcosa da dire. I social, soltanto come rimbalzo. Per le situazioni militanti, come scritto nella prima puntata, questa è una necessità vitale, ma in fondo lo è anche per il singolo individuo. Non è più tempo di essere ex-blogger.

Uno dei temi che attraversa il testo ed è chiaramente presente per la conoscenza che ne ha l’autore è quello della salute mentale: “il realismo capitalista insiste a trattare la salute mentale come se fosse un fatto naturale alla stregua del clima”. Sempre più relegato a problema individuale, è evidente che andrebbe socializzato, poiché le cause sistemiche dell’aumento dei disturbi e delle malattie mentali appaiono in realtà lampanti. Per questo “ripoliticizzare la malattia mentale è un compito urgente per qualsiasi sinistra che voglia lanciare una sfida al realismo capitalista”. Nell’ultimo capitolo del libro Fisher dichiara:

Dobbiamo prendere i problemi di salute mentale oggi così diffusi e convertirli da una condizione di medicalizzazione a un antagonismo reale; i disordini affettivi sono forme di scontento acquisito, e questa disaffezione può e deve essere indirizzata altrove, verso fuori, verso la sua vera causa: il Capitale.

L’estrema individualizzazione che tende a colpevolizzare i singoli si ripete in altri ambiti, come ad esempio quello del cambiamento climatico, e a proposito della citazione che sopra si riferisce anche al clima, in un inciso Fisher afferma che neanche quello è un fatto naturale quanto un effetto politico-economico. Più avanti afferma: “La causa della catastrofe ecologica è una struttura impersonale che, nonostante sia capace di produrre effetti di tutti i tipi, non è un soggetto capace di esercitare responsabilità. Il soggetto che servirebbe – un soggetto collettivo – non esiste: ma la crisi ambientale, così come tutte le altre crisi globali che stiamo affrontando, richiede che venga costruito. E però l’appello all’intervento etico immediato (…) rinvia continuamente l’emergere di un tale soggetto”.

external-content.duckduckgo.com

I figli degli uomini (2006)

Come sempre la situazione contingente interagisce con la lettura, spingendomi a sottolineare passaggi come il seguente: “La cosiddetta guerra al terrore ci ha già preparato a simili sviluppi; la normalizzazione della crisi ha prodotto una situazione nella quale la fine delle misure d’emergenza è diventata un’eventualità semplicemente impensabile: quand’è che la guerra potrà davvero dirsi conclusa?” Suona terribilmente attuale vero? E non è il primo autore in cui risuona il paragone con la guerra al terrore iniziata dopo l’11 settembre, altri ancora viventi l’hanno potuto cogliere esplicitamente. Parlando del film I figli degli uomini, “(…) lo spazio pubblico è abbandonato, popolato da null’altro che immondizia e animali in libertà (una scena particolarmente suggestiva è ambientata in una scuola ormai a pezzi dentro la quale troviamo una renna che corre). I neoliberali, ovvero i reali capitalisti per eccellenza, hanno più volte celebrato la distruzione dello spazio pubblico: ma contrariamente alle loro aspirazioni ufficiali, (…) non assistiamo a nessun arretramento dello Stato, quanto semmai un ritorno dello Stato alle sue originarie funzioni di stampo militare e poliziesco”. Se non sembra scritto oggi, potrebbe benissimo essere scritto in un domani non troppo remoto, e terribilmente plausibile.

E per quanto riguarda il neoliberismo o neoliberalismo, Fisher non si lasciata affatto ingannare dalla definizione che potrebbe sfociare nel considerare questo cattivo e il capitalismo in sé buono, e mette le cose nella giusta prospettiva:

dopo il salvataggio delle banche, il neoliberismo si è ritrovato – in ogni senso possibile – screditato. Questo non vuol dire che il neoliberismo sia da un giorno all’altro scomparso: al contrario, i suoi presupposti continuano a dominare la politica economica; ma non lo fanno più come ingrediente di un progetto ideologico mosso dalla fiducia per le proprie prospettive future, quando come una specie di ripiego inerziale, di morto che cammina. Quello che oggi appare chiaro è che se il neoliberismo non poteva che essere realista capitalista, il realismo capitalista non ha invece alcun bisogno di essere neoliberale. Anzi: ai fini della propria salvaguardia il capitalismo potrebbe benissimo riconvertirsi al vecchio modello socialdemocratico, oppure a un autoritarismo in stile I figli degli uomini. Senza un’alternativa coerente e credibile al capitalismo, il realismo capitalista continuerà a dominare l’incoscio politico-economico.

La (ri)lettura di Realismo capitalista mi ha motivata a ricercare gli altri testi di Mark Fisher che sono in via di pubblicazione anche in lingua italiana, e mi lascia con il dubbio di cosa scriverebbe Fisher dell’attuale sconvolgente situazione se non ci avesse lasciato, forse sarebbe ancora più speranzoso grazie a e nonostante la pandemia. Restano comunque importanti alcuni dei passaggi dell’ultimo capitolo, tradotto in italiano “super-tata marxista”, con i quali vorrei avvicinarmi alla fine di questo post.

Contro l’allergia postmoderna alle grandi narrazioni dobbiamo riaffermare che, anziché trattarsi di problemi contingenti e isolati, sono tutti effetti di un’unica causa sistemica: il Capitale. Dobbiamo insomma cominciare, come se fosse la prima volta, a sviluppare strategie contro un Capitale che si presenta ontologicamente (oltre che geograficamente) ubiquo.

E infine

Anche se è chiaro che la crisi non porterà da sola a nessuna fine del capitalismo, ha avuto comunque l’effetto di sciogliere in parte una certa paralisi mentale. Siamo adesso in un panorama politico disseminato di quelli che Alex Williams ha chiamato “detriti ideologici”; è un nuovo anno zero, e c’è spazio perché emerga un nuovo anticapitalismo non più costretto dai vecchi linguaggi e dalle vecchie tradizioni.

La paralisi mentale di cui parla qui Fisher ha sicuramente subìto un’altra scossa imponente dall’attuale pandemia. Non è mai stato chiaro come oggi alle diverse generazioni che ora si affacciano nel XXI secolo quanto il capitalismo sia un vicolo cieco per sicurezza non solo economica e sociale ma anche per la salute collettiva. Da questi punti fermi, tocca costruire l’alternativa.

Lifecake and Backthen to reality

Per chi non lo sapesse, ho un bambino che tra poco compie tre anni. Nelle mille offerte e omaggi che invogliano le quasi mamme e le neomamme a provare prodotti di cui poi non potranno fare a meno ricevetti un buono col quale poter stampare un tot di foto omaggio collegati con una app in cui caricare le foto e condividerle in tutta sicurezza, o quanto meno privatamente, solo con i cari tramite invito email. Una buona idea, pensai. E scaricai l’app. Scelsi poi le foto e me le spedirono a casa; io continuai ad usare l’app perché sì, era comoda. Non ho mai voluto condividere le foto sui social, men che meno su Facebook finché c’ero dentro, e l’app mi risparmiava di inviare singolarmente e privatamente le foto ad ognuno dei tanti “affetti stabili”: li caricavo lì ed erano immediatamente visibili solo ai contatti invitati. Il servizio, Lifecake, che era una startup acquistata da Canon nel 2015, è gratuito fino a 10 giga. Tutto bene no? In realtà ultimamente volevo verificare se l’app fosse davvero sicura, visto che ho iniziato un percorso di attenzione alla sicurezza digitale, disintossicazione social e sto cercando di avviare il degoogling anche se questo è un processo complesso e per cui ci vorrà parecchio tempo. Proprio per mancanza di tempo rinviavo la messa in questione di Lifecake, finché ci ha pensato l’app stessa: con una comunicazione senza grande preavviso, alcuni giorni fa annuncia che chiuderà il 30 giugno. Già dall’1 maggio è impossibile caricare nuove foto. Nell’app stessa però ti comunicano che gli stessi costruttori hanno fatto un’altra app in cui si possono riversare tutti i file, già operativa su mobile ma non sul web, mentre scaricare per sé tutto sarà reso possibile in breve tempo.

Storcendo il naso per questo cambiamento improvviso, provo a scaricare l’app per vedere un po’, leggo i termini di servizio e le regole della privacy, dopo di che decido di provare l’importazione in questa nuova app, BackThen, che tra l’altro ha la stessa grafica di Lifecake, cambiano solo i colori, ma mi fermano subito. Supero il limite dei Giga consentiti dal piano gratuito, ne ho 6,6 mentre solo 1G è gratuito nella nuova app. Per principio decido di soprassedere e cercare alternative, apro Mastodon raccontando la cosa nella speranza che qualche utente mi dia una dritta per un’alternativa realmente valida, apro twitter e cercando lifecake vedo una marea di tweet indignati per il fatto di aver scelto di chiudere l’app proprio in questo frangente. Sapete com’è, durante la pandemia quasi tutti i cari non conviventi non si possono vedere e un servizio come quello fornito da Lifecake assomiglia terribilmente a qualcosa di essenziale e non sostituibile. Molta gente aveva piani a pagamento, che comunque gli saranno rimborsati per il periodo non fruito e si lamenta dell’aumento delle tariffe. Il CEO si giustifica dicendo che l’app è autofinanziata e quindi deve stare in piedi sulle sue gambe e potrebbe anche starci come ragionamento. Alla fine ogni utente del servizio farà la propria scelta, io proseguendo il mio percorso di consapevolezza digitale cercherò un’alternativa che abbia determinati standard, già che ci sono.

lifecake

Quello che però mi fa riflettere e dovrebbe essere il punto principale nel raccontare questa storia è quanto delle nostre vite sia in mano a società terze, che all’interno del capitalismo della sorveglianza possono decidere dall’oggi al domani di cambiare le regole, cedere quel che di nostro hanno o semplicemente chiudere. Per giunta, Canon ha acquistato Lifecake quand’era una startup, l’ha masticata succhiandone i profitti e non l’ha neanche buttata via quando ha deciso che non era più profittevole, l’ha proprio uccisa. Riecheggiando Marx, noi abbiamo formalmente la scelta di decidere di quale app servirci, ma in realtà non siamo liberi di uscire da questo sistema che è ovunque uguale, un’app vale l’altra fintanto che all’interno del capitalismo tutte queste società hanno come unico obiettivo i profitti e noi siamo solo carne e dati da sfruttare per i loro interessi:

dimenticatevi il cliché secondo il quale “se qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”: noi non siamo il prodotto, siamo le carcasse abbandonate. Il prodotto deriva dal surplus strappato alle nostre vite. (S. Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza)

All’obiezione che si può porre, che la tecnologia funziona intrinsecamente in questo modo, si può rispondere con un’altra citazione della Zuboff messa nel già citato post sul capitalismo della sorveglianza:

il digitale può assumere molte forme, a seconda delle logiche sociali ed economiche che lo animano. È il capitalismo che impone un prezzo fatto di sottomissione e impotenza, non la tecnologia. È vitale ricordare che il capitalismo della sorveglianza è una logica in azione, non una tecnologia, perché i capitalisti vogliono farti credere che le loro pratiche siano insite nelle tecnologie che utilizzano. (…) Le tecnologie sono sempre dei mezzi al servizio dell’economia, e non dei fini: nell’epoca moderna, il Dna della tecnologia è segnato in partenza da quello che il sociologo Max Weber chiama “orientamento economico”.

Quello che occorre fare è resistere al realismo capitalista, nelle parole di Mark Fisher “la sensazione diffusa che non solo il capitalismo sia l’unico sistema politico ed economico oggi percorribile, ma che sia impossibile anche solo immaginarne un’alternativa coerente”. Per fortuna, anzi per inevitabili e contingenti ragioni storiche, sociali ed economiche, questa narrazione scricchiola ogni giorno di più e la consapevolezza cresce e si diffonde, come un contagio, e viene denunciato che il capitalismo è il vero virus.

Il buco (El hoyo)

IL-BUCO-NETFLIX

Un film claustrofobico forse non è l’ideale in questo tempo sospeso, o forse è proprio quel che ci vuole. Fatto sta che su Netflix spopola e incuriositi dal trailer abbiamo deciso di guardarlo.

Il buco ha un’idea semplice alla base e una scenografia minimalista, perfettamente adeguata per la trama. Tutto si svolge in una prigione molto peculiare. È costruita in verticale e suddivisa in livelli, non si vede mai l’esterno. Ad ogni livello ci sono due persone e tutto si ripete uguale per supposti 200 livelli. Il protagonista sceglie di entrare volontariamente (ma non sembra questa la norma) per un periodo di sei mesi e al colloquio che determinerà la sua ammissione gli viene chiesto il suo piatto preferito. Chi entra sceglie anche un solo oggetto da portare con sé, e sembra quasi uno di quei test sull’isola deserta: il protagonista pare essere l’unico ad avere mai scelto un libro, c’è chi sceglier armi le più disparate, indovinate perché, ho visto anche una tavola da surf e una piccola piscina gonfiabile! La peculiarità della prigione è che ogni stanza è un ambiente unico, con due letti contrapposti, un unico bagno e al centro un grande buco, la fossa, attraverso cui passa quotidianamente una singola piattaforma per distribuire il cibo a tutti, e ci dovrebbe essere per ognuno la portata scelta; ma essendo la cucina al piano 0 in cima, tutto quel cibo viene consumato dai primi livelli, le briciole arrivano fino al centesimo circa, e chi si trova più giù non ha molte alternative se vuole sopravvivere… 30 giorni. Certo, perché ogni mese gli ospiti vengono addormentati con un gas e quando si risvegliano si ritrovano su un altro livello, superiore o inferiore apparentemente senza nessuna correlazione col comportamento tenuto nel mese precedente.

Quello che sicuramente si vuole dire, e infatti è anche detto esplicitamente, è che un sistema del genere funzionerebbe, e il cibo basterebbe per tutti, se ognuno prendesse la sua piccola parte e avesse rispetto per quella degli altri. Quello che accade è molto diverso. Credo sia doveroso notare come questo sistema sia costruito artificialmente: non è affatto naturale. Sul significato del film e del finale in particolare, si può discutere ma penso sia chiaro l’intento allegorico. Molti hanno visto una spietata critica del capitalismo e anche EVO3ZzJVAAAK9EQio non penso che la pellicola voglia sottolineare la naturale avidità e l’innato egoismo umano (che da più parti sono stati dimostrati infondati), quanto piuttosto denunciare un sistema che spinge gli uni contro gli altri, li isola e li induce a credere che per sopravvivere sia meglio sopraffarli piuttosto che collaborare per cambiare il sistema. Mi sembra che ciò sia più che mai attuale oggi (e lo è sempre stato!): il divide et impera è un vecchio trucco del capitale che ha dimostrato di funzionare tante, troppe volte. I lavoratori che in questi giorni non possono uscire “a prendere aria” ma devono andare a lavorare hanno un’ottima occasione per capire che loro sì, sono tutti sulla stessa barca, e sarebbe necessario lottare uniti perché mai come ora è stato chiaro a tutti che la salute non si baratta col lavoro e tutti insieme bisogna sostenere i lavoratori dei servizi essenziali, in primis nel settore sanitario, perché sia garantita la loro salute, per se stessi e per le persone che curano. Come dice bene il compagno Mauro su Giap, “l’ossessione sui comportamenti individuali è un dispositivo che fa comodo a chi detiene il potere“. Non sono i singoli che possono cambiare il sistema o combatterlo; e nel film il protagonista riceve l’aiuto di più di una persona, per sopravvivere prima e per mandare il messaggio che il sistema non funziona poi; come un bellissimo e concreto slogan della lotta No Tav ci insegna, si parte e si torna insieme.

Il capitalismo della sorveglianza

Some resist the future, some refuse the past

Either way, it’s messed up if we can’t unplug the fact (Ludens, BMTH)

cover_image_zuboff

La lettura de Il capitalismo della sorveglianza, di Shoshana Zuboff, richiede sicuramente tempo non solo per la lunghezza del testo, ma soprattutto per riuscire a metabolizzare la quantità di informazioni e la loro densità. Si tratta di un testo imprescindibile, oserei dire fondamentale, che dovrebbe essere citato, studiato e considerato punto di riferimento come e più de Il capitalismo nel XXI secolo di Thomas Piketty, il quale sconta evidenti limiti nel riformismo che parte da un’analisi incompleta e conseguentemente nelle soluzioni che propone, ma questo è un altro discorso, chissà se qualche volta mi deciderò a parlarne con metodo. Ritorniamo al testo della Zuboff; nel leggerlo ho sottolineato parecchio e spero di poter rendere a chi mi leggerà l’importanza di questo lavoro.

Cos’è il capitalismo della sorveglianza?

Secondo l’autrice pioniere di questa nuova maschera del capitalismo sono Google e Facebook, le quali per prime scoprono l’importanza dei dati, non semplicemente di quelli forniti dagli utenti ma soprattutto di tutto ciò che ruota intorno ad essi. Apparentemente entrambe le big companies rendono servizi gratuiti, eppure sono tra le società che guadagnano di più al mondo, e i loro fondatori sono tra i miliardari più ricchi. Com’è possibile ciò? Evidentemente nulla è gratis, ma in realtà non è neanche come più volte ci siamo sentiti dire: siamo noi il prodotto. No. la realtà dei fatti è che noi siamo semplicemente lo strumento attraverso cui queste società (e Google e Facebook sono solo le prime in ordine di tempo, non le uniche) mettono a profitto la nostra intera esistenza. Per capirlo meglio andiamo al testo (ricorrerò frequentemente alla citazione diretta per motivi di chiarezza di esposizione e fedeltà ai concetti che voglio rendere): “gli utenti non sono prodotti, bensì le fonti della materia prima. (…) gli anomali prodotti del capitalismo della sorveglianza riescono nell’impresa di derivare dal nostro comportamento pur rimanendo al tempo stesso indifferenti ad esso”. Quello che genera profitti, una mole incredibile di profitti, non è ciò che l’utente inserisce in rete, ma il suo surplus comportamentale:

Gli scienziati poi chiariscono che hanno intenzione – e che le loro invenzioni glielo consentono – di aggirare gli attriti insiti nel diritto degli utenti a decidere. I metodi registrati da Google consentono di sorvegliare, catturare, espandere, costruire e reclamare surplus comportamentale, inclusi i dati intenzionalmente non condivisi dagli utenti. Gli utenti recalcitranti non ostacoleranno l’espropriazione dei dati. Nessun limite morale, legale o sociale intralcerà la ricerca, la sottrazione e l’analisi del comportamento altrui con scopi commerciali.

Fermo restando che quotidianamente diamo il consenso alle lunghissime e spesso incomprensibili clausole sulla privacy senza neanche leggerle, non è rifiutandole che ci potremo tirare fuori. Per come si è costituito questo sistema, e per gli ostacoli che NON ha incontrato nel corso degli anni, a partire da una sistema normativo inadeguato anche solo a comprendere cosa stesse accadendo, non c’è modo di rifiutarsi e restarsene fuori. Basti pensare che Facebook raccoglie i dati anche dei non iscritti alla piattaforma, per fare un esempio banale. Per non dire che tramite l’acquisizione di Whatsapp ha l’accesso alle nostre rubriche telefoniche e a qualsiasi dato presente nei nostri smartphone.

That a world covered in cables was never wired to last

So don’t act so surprised when the program starts to crash

È importante tenere presente che in nessun modo si tratta di demonizzare la tecnologia in sè:

il digitale può assumere molte forme, a seconda delle logiche sociali ed economiche che lo animano. È il capitalismo che impone un prezzo fatto di sottomissione e impotenza, non la tecnologia. È vitale ricordare che il capitalismo della sorveglianza è una logica in azione, non una tecnologia, perché i capitalisti vogliono farti credere che le loro pratiche siano insite nelle tecnologie che utilizzano. (…) Le tecnologie sono sempre dei mezzi al servizio dell’economia, e non dei fini: nell’epoca moderna, il Dna della tecnologia è segnato in partenza da quello che il sociologo Max Weber chiama “orientamento economico”.

In termini marxiani si afferma ancora una volta il dominio della struttura sulla sovrastruttura. Il libro fa l’esempio di almeno due diverse innovazioni tecnologiche create con scopi non commerciali, anzi ideate per essere al servizio dei singoli e delle comunità e che invece all’interno del sistema capitalista hanno in breve tempo perso la loro “missione” originaria: il primo era il progetto Aware Home, pensato per rendere la casa intelligente per gli utenti che la abitano, un progetto ingenuamente ideato per andare incontro alle esigenze personali degli abitanti di una casa, a differenza di come si è trasformato nella realtà, un ulteriore mezzo per trasferire e vendere informazioni a terzi; il secondo esempio è quello dell’affective computing ideato da Picard, che pensava di aiutare le persone attraverso delle macchine intelligenti che potessero comprendere le emozioni consapevoli e inconsapevoli e renderle codificabili; “Picard non aveva previsto le forze del mercato in grado di trasformare la renderizzazione delle emozioni in surplus sfruttabile con fini di lucro: dei mezzi per i fini di altre persone”. In entrambi i casi si immaginavano usi personali e privati: “non è pertanto una questione di dispositivi; è “l’orientamento economico” del quale parlava Max Weber, a essere determinato dal capitalismo della sorveglianza”.

L’autrice mantiene saldamente un approccio materialista che non posso che apprezzare, insieme al background sociologico di tutto rispetto: oltre Weber del testo citato sopra, lungo il testo ho ritrovato Polanyi, stella polare della sociologia economica, oltre a Braudel e Bauman. E a questo proposito segnalo il seguente passaggio che permette di introdurre una questione dirimente:

Il filosofo sociale Zygmunt Bauman ha scritto che la più profonda contraddizione del nostro tempo è “il gap sempre più ampio tra il diritto all’affermazione di sè stessi e la capacità di controllare le variabili sociali che la renderebbero possibile. È da quel terribile gap che provengono gli effluvi più velenosi che oggi contaminano le vite dei singoli individui”.

In buona sostanza c’è uno stridente contrasto tra la società iperindividualizzata e la crescente impotenza dei singoli ad autoaffermarsi. La società che inneggia alla meritocrazia, un concetto quanto meno discutibile, si dimostra sempre più incapace di far emergere le singole individualità. Come spiega meglio la Zuboff:

Descrivo la “collisione” tra i processi secolari di individualizzazione che danno forma alla nostra esperienza di individui autodeterminati e l’impervio habitat sociale prodotto da decenni di regime economico neoliberale che schiaccia quotidianamente la nostra autostima e il nostro bisogno di autodeterminarci. Il dolore e la frustrazione derivanti da tale contraddizione sono le condizioni che ci hanno spinto a sbandare verso internet per il nostro sostentamento, e accettare il drastico do ut des del capitalismo della sorveglianza.

And I don’t feel secure no more

Unless I’m being followed

And the only way to hide myself

Is to give ‘em one hell of a show

Com’è successo?

Una domanda potrebbe sorgere, e l’autrice prova a rispondere: ma com’è potuto accadere che il capitalismo della sorveglianza diventasse realtà senza nessuna resistenza, anzi senza la presa di coscienza di cosa stesse accadendo?

Sotto la guida di Google, il capitalismo della sorveglianza ha allargato notevolmente le dinamiche di mercato, imparando a espropriare l’esperienza umana e a trasformarla in previsioni comportamentali. Google e l’ancora più vasto progetto di sorveglianza sono stati generati, protetti e nutriti dalle specifiche condizioni storiche di un’epoca – le esigenze della seconda modernità, l’eredità neoliberista, la realpolitik dell’eccezionalismo della sorveglianza – oltre che dalla loro volontà di erigere delle fortezze per proteggere la propria incetta di materie prime dall’analisi altrui attraverso l’influenza politica e culturale.

Tra i meccanismi utilizzati dai capitalisti della sorveglianza per vincere facilmente le resistenze ed affermarsi quasi senza “combattere” c’è “l’invasione tramite la dichiarazione“: “la mancanza di precedenti ci ha lasciato disarmati e incantati”. Per comprendere questo passaggio occorre tornare un attimo indietro, esattamente alla conquista dell’America. Molti si sono chiesti come siano stati possibili la conquista e il conseguente genocidio dei popoli americani da parte di relativamente pochi colonizzatori. In pratica questo è stato spiegato in buona parte dall’assoluta estraneità della realtà e dei mezzi dei conquistatori: i nativi non capivano chi si trovavano davanti, mentre da parte europea c’era tutto fuorché ingenuità, perché approfittarono sapientemente di quel terribile gap per prevalere senza alcuno scrupolo. Lo strumento del Requerimiento soprattutto serviva allo scopo: si trattava di una dichiarazione in cui si affermavano le modalità di conquista, partendo dalla storia dell’umanità e passando per la nascita e l’affermazione del Cattolicesimo. Attraverso il potere spirituale e temporale conferito dalla Chiesa si proclamava la sottomissione dei nuovi popoli a ad esso. Il problema principale di questo strumento era la sua pura formalità, che tra l’altro neanche sempre veniva rispettata, mentre nei fatti i popoli non comprendevano affatto quanto veniva loro detto e si trovavano in una condizione di subalternità tale da non rendersene neanche conto. Questa storia apparentemente lontana si è ripetuta negli anni scorsi, ovviamente in forme diverse e senza nessun conseguente genocidio, quando Google ha appreso

l’arte dell’invasione e della dichiarazione, prendendosi quel che voleva e stabilendo che gli apparteneva. L’azienda ha rivendicato il proprio diritto di aggirare la nostra consapevolezza, di prendere la nostra esperienza e trasformarla in dati, di ritenersi proprietaria dell’uso e della destinazione di quei dati, di elaborare tattiche e strategie per tenerci all’oscuro delle sue pratiche e di insistere perché persistesse la mancanza di leggi necessaria a tali operazioni. Queste dichiarazioni hanno istituzionalizzato il capitalismo della sorveglianza come forma di mercato.

Tra i caratteri più peculiari che hanno permesso che tutto ciò accadesse è la velocità del nuovo sistema: “i movimenti rapidi del capitalismo della sorveglianza non vengono colti dallo sguardo della democrazia e dalla nostra capacità di capire che cosa accade e considerarne le conseguenze”. Non è un caso che l’elaborazione teorica di questo sistema avviene quando è già fortemente istituzionalizzato, con un ritardo di una ventina d’anni dai suoi primi passi.

Alcuni concetti chiave

Uno dei concetti chiave del libro è lo shadow text: quello che noi condividiamo su internet, attraverso i social, oppure utilizzando i molteplici servizi di colossi come Google è un primo testo, il quale però lascia tracce, residui che sono più importanti di questo per i capitalisti della sorveglianza:

Sotto il regime del capitalismo della sorveglianza, però il primo testo non è più solo, ma lascia un’ombra alle sue spalle. Il primo testo, tanto apprezzabile, in realtà fornisce materie prime al secondo testo: il testo ombra. Tutto quel che offriamo al primo testo, non importa quanto irrilevante o effimero sia, diventa un bersaglio per l’estrazione del surplus. Questo surplus riempie le pagine del secondo testo, che è celato alla nostra vista: una “lettura riservata” per i capitalisti della sorveglianza.

Anche dopo lo scandalo di Cambridge Analytica del 2018, quando Facebook ha dichiarato che avrebbe reso disponibile per il download più dati personali, si riferiva sempre al primo testo: “questi dati non comprendono il surplus comportamentale, i prodotti predittivi e il destino di queste previsioni quando vengono usati per la modifica del comportamento, comprati e venduti. Quando scarichiamo le nostre “informazioni personali”, abbiamo accesso al proscenio, non al retroscena (…)”.

Quel che accade all’interno del capitalismo della sorveglianza è ben lontano dalle forme antiche e conosciute di sottomissione, non si tratta neanche di “imporre norme comportamentali come l’obbedienza e il conformismo”, ma piuttosto di “produrre un comportamento che in modo affidabile, definitivo e certo conduca ai risultati commerciali desiderati” .

How do I form a connection when we can’t even shake hands?

You’re like the phantom greeting me

We plot in the shadows, hang out in the gallows

Stuck in a loop for eternity

I livelli di ansia crescono al proseguire della lettura, e non potrebbe essere altrimenti: “Google e Amazon si sono già assicurati la competizione per il cruscotto della nostra auto, dove i loro sistemi controlleranno tutte le comunicazioni e le applicazioni”. D’altronde non potrebbe essere altrimenti quando si scopre che vengono prodotte “bottiglie smart di vodka” e “termometri rettali connessi a internet”. Se c’è una cosa che mi mette profondamente a disagio è pensare che quella che ingenuamente credevo potesse essere una comodità e un miglioramento della qualità della vita come i robot aspirapolvere è già programmato per raccogliere e inviare all’esterno dati privati sulla casa e non solo. D’altronde, pensando razionalmente ai caratteri intrinseci del capitalismo non potrebbe essere altrimenti finchè vi siamo immersi; e leggendo il libro mi sono ancora più convinta di quanto abbia fatto bene ad uscire da Facebook (che poi il passo successivo parrebbe dover essere fare l’eremita sull’Himalaya è un altro discorso, forse):

Facebook è diventata invece una delle più autorevoli e minacciose fonti di surplus comportamentale proveniente dall’abisso. Con una nuova generazione di strumenti di ricerca, ha imparato a depredare il vostro sé fino alle sue profondità più intime. Le nuove operazioni di rifornimento possono renderizzare come comportamento misurabile qualunque cosa: le sfumature della nostra personalità, il nostro senso del tempo, l’orientamento sessuale, l’intelligenza e i valori di altre caratteristiche personali. È l’immensa intelligenza delle macchine dell’azienda che trasforma questi dati in efficaci prodotti predittivi.

Non si tratta di esagerazioni o iperboli, stiamo parlando ad esempio di Cambridge Analytica, qualcosa che almeno apparentemente ha smosso le acque e generato indignazione generale:

si tratta delle capacità cresciute in quasi due decenni di incubazione del capitalismo della sorveglianza in uno spazio sregolato; pratiche che hanno suscitato scandalo, ma che nei fatti sono routine quotidiana nell’elaborazione dei metodi e degli obiettivi del capitalismo della sorveglianza, che si tratti di Facebook o di altre aziende. Cambridge Analytica ha semplicemente spostato la macchina dai soldi garantiti dal mercato dei comportamenti futuri alla sfera politica.

Do you know why the flowers never bloom?

Will you retry or let the pain resume?

I need a new leader, we need a new Luden

(A new Luden, new Luden, yeah)

Un altro dei elementi chiave presentati nel libro è la gamification, un concetto affascinante almeno quanto inquietante e che ha già prodotto una letteratura accademica diffusa e sostanziosa. La Zuboff spiega chiaramente il suo significato e le sue implicazioni all’interno del capitalismo della sorveglianza:

In pratica, il potere dei giochi di cambiare i comportamenti è stato strumentalizzato senza ritegno, con la diffusione della gamification in migliaia di situazioni nelle quali un’azienda non vuole fare altro che regolare, dirigere e condizionare il comportamento dei propri clienti o impiegati rivolgendolo verso i propri obiettivi. In genere questo significa importare alcune componenti, come i punti bonus e l’avanzamento di livello, per determinare comportamenti che tornano comodi agli interessi dell’azienda, con programmi che premiano la fedeltà dei clienti o la competizione per le vendite tra gli impiegati.

Si tratta di strumenti ormai largamente diffusi e di cui facciamo spesso esperienza come clienti ma effettivamente sono impiegati moltissimo anche a monte della catena di produzione come afferma correttamente l’autrice, per incentivare gli impiegati: un esempio lampante si riscontra nei meccanismi di gara e premialità fortemente presenti nei call center, ma non solo. E parlando di giochi un passaggio importantissimo per il potenziamento del capitalismo della sorveglianza è stato a la diffusione a livello mondiale del gioco Pokémon Go che ha generato una mania collettiva coinvolgendo milioni di persone e che ha permesso di interiorizzare in maniera inconsapevole alcuni degli aspetti più deleteri della sorveglianza, dalla geolocalizzazione massiccia all’intrusione in luoghi privati come le case, non troppo tempo fa considerati inviolabili, fino alla monetizzazione ottenuta da tutte quelle imprese che permettendo la presenza di Pokémon all’interno del loro perimetro hanno ottenuto accessi in massa da parte di clienti che probabilmente non sarebbero facilmente entrati, consentendo un ritorno economico eccezionale. Quello che preme sottolineare è che il cliente finale del gioco non è l’utente che vi partecipa con eccessiva leggerezza ma “le aziende che prendono parte al mercato dei comportamenti futuri stabilito e ospitato dall’azienda” (la Niantic, produttrice del gioco). Quando parlo di leggerezza da parte dei giocatori di Pokémon Go o di inconsapevolezza non mi riferisco ad un aspetto marginale, poiché come afferma la Zuboff “la capacità dei capitalisti della sorveglianza di aggirare la nostra consapevolezza è una condizione essenziale per la produzione di conoscenza“. Il fatto di non avere alcun controllo formale è diretta conseguenza del nostro essere inessenziali al funzionamento del mercato: “in un futuro del genere, siamo esiliati dai nostri stessi comportamenti, ci viene negato l’accesso o la possibilità di controllare la conoscenza ricavata dalle nostre esperienze. Conoscenza, autorità e potere risiedono nel capitale della sorveglianza, per il quale siamo solo “risorse naturali umane”.

Nel futuro che il capitalismo della sorveglianza sta preparando per noi, la mia e le vostre volontà costituiscono una minaccia per il flusso di denaro che proviene dalla sorveglianza. Il suo scopo non è quello di distruggerci, ma semplicemente quello di scrivere la nostra storia per guadagnare soldi. Già in passato sono state ipotizzate cose simili, ma solo oggi sono possibili. Già in passato sono state sconfitte cose simili, ma solo oggi hanno potuto radicarsi. Siamo intrappolati senza consapevolezza, privi di alternative per sfuggire, resistere o proteggerci.

So come outside, it’s time to see the tide

It’s out of sight, but never out of mind

I need a new leader, we need a new Luden

(A new Luden, new Luden, yeah)

Aspetti vincenti del capitalismo della sorveglianza non sono solo la velocità, i modi subdoli o la sua eccezionalità rispetto al contesto storico in cui si è costituito , c’è sicuramente invece una componente di comodità e “servizio” apparentemente gratuito che affascina e irretisce, illudendo molte persone della necessità di essere parte di questo immane cambiamento:

in questo nuovo regime, le nostre vite si svolgono in un contesto morale di oggettificazione. Il Grande Altro può imitare l’intimità per mezzo dell’instancabile devozione dell’Unica Voce – la ciarliera Alexa di Amazon, le informazioni instancabili e i promemoria del Google Assistant -, ma non commettiamo l’errore di scambiare questi suoni avvolgenti per qualcosa di diverso dallo sfruttamento dei nostri bisogni.

Come già detto sopra, non si tratta di essere diventati il prodotto del capitalismo:

dimenticatevi il cliché secondo il quale “se qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”: noi non siamo il prodotto, siamo le carcasse abbandonate. Il prodotto deriva dal surplus strappato alle nostre vite.

Dal punto di vista della personalità così come viene influenzata dalle maggiori occasioni di confronto sociale si riscontra la condizione psicologica FOMO (Fear Of Missing Out), “una forma di ansia sociale definita dalla “sensazione sgradevole, o perfino straziante, che i nostri simili stiano facendo qualcosa di migliore di noi, e possiedano più cose o conoscenze”. Suona familiare? I ricercatori hanno associato questa condizione all’uso compulsivo di Facebook, e oserei dire che si tratta di una delle condizioni più diffuse tra giovani e meno giovani dei nostri tempi, che anche personalmente ho vissuto nella mia esperienza e anche per lunghi periodi. È necessario rilevare quanto questa condizione sia collegata ad una vita insoddisfacente e non semplicemente insicura.

All’interno del capitalismo della sorveglianza la società si trasforma in sciame, mentre gli individui diventano meccanismi: questi sono i caratteri fondanti della società strumentalizzata, una società che non annulla affatto le divisioni di classe: “la vita nell’alveare produce nuove spaccature e forme di stratificazioni. Non si tratta più solo di regolare o subire le regole, ma anche di fare pressione o subirla”.

So di aver scritto già tanto, ma mi preme condividere tutti gli elementi che considero importanti, e sono davvero molteplici. Ad esempio un elenco di “affronti alla democrazia e alle sue istituzioni”:

l’esproprio non autorizzato dell’esperienza umana; il dirottamento della divisione dell’apprendimento nella società; l’indipendenza strutturale del capitalismo; l’imposizione della forma collettiva dell’alveare; l’ascesa del potere strumentalizzante e dell’indifferenza radicale alla base della sua logica dell’estrazione; la costruzione, la proprietà e la gestione dei mezzi di modifica del comportamento costituita dal Grande Altro; l’abrogazione dei diritti fondamentali al futuro e al santuario*; l’allontanamento dell’individuo in grado di autodeterminarsi dal cuore della vita democratica; l’annebbiamento psichico come merce di scambio con l’individuo in un do ut des illegittimo.

*per diritto al santuario l’autrice intende il bisogno di uno spazio che possa essere un rifugio inviolabile, diritto presente nelle società civilizzate fin dall’antichità.

Storicità e contingenza

Come sostiene l’autrice “il capitalismo della sorveglianza rappresenta una logica d’accumulazione senza precedenti definita da nuovi imperativi economici con meccaniche ed effetti non interpretabili dai modelli e dagli assunti esistenti”. Questo però non esclude la sua storicità, perché “è stato creato da uomini e donne che potrebbero controllarlo, ma che hanno semplicemente scelto di non farlo”. Così come non si tratta di una trasformazione che mette in soffitta i princìpi e gli assunti base del capitalismo, e infatti “ciò non significa che i vecchi imperativi – la compulsione alla massimizzazione del profitto con l’intensificazione dei mezzi di produzione, crescita e competizione – siano svaniti. Questi si trovano però a dover operare attraverso i nuovi obiettivi e meccanismi del capitalismo della sorveglianza”.

Soffermarsi sul carattere storico e “accidentale” del capitalismo della sorveglianza non è un semplice esercizio accademico perché implica una semplice ma grande verità, sottaciuta per ovvie ragioni. E ci incoraggia ad agire per resistere alla sua contingenza:

Non va bene che ogni nostro movimento, ogni emozione, parola e desiderio siano catalogati, manipolati e poi indirizzati verso un futuro già deciso per far guadagnare qualcun altro. “Si tratta di cose nuove” spiego. “Non hanno precedenti. Non dovreste darle per scontate, visto che non vanno bene.

Si tratta di una grande lezione, necessaria, che travalica i seppur pervasivi confini del capitalismo della sorveglianza per abbracciare la nostra intera esistenza di esseri sociali: il motore del cambiamento della storia è sempre passato da questa convinzione e così sarà per il futuro.

Alright, you call this a connection?

You call this a connection?

You call this a connection? Okay

You call this a connection?

Oh, give me a break

Oh, give me a break

Oh, give me a break (okay)

[AGGIORNAMENTO IMPORTANTE: questo post è molto letto ma resta incompleto senza il successivo post dedicato alla critica del testo di Evgeny Morozov, che inserito tra i commenti di rimando spesso sfugge mentre è essenziale. Consiglio quindi a tutti di leggerlo per avere un quadro più compiuto.

I dati Oxfam e il migliore dei mondi possibili

Time to care – Aver cura di noi” è il nuovo rapporto sulle diseguaglianze sociali ed economiche pubblicato due giorni fa da Oxfam, alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos iniziato ieri. La notizia è che le disuguaglianze crescono, e non dovrebbe stupire, Come riporta il Sole 24 ore:

A livello mondiale, la ricchezza globale, in crescita tra giugno 2018 e giugno 2019, resta fortemente concentrata al vertice della piramide distributiva: l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva a metà 2019 più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone, afferma il rapporto «Time to care» di Oxfam.
Ribaltando la prospettiva, la quota di ricchezza della metà più povera dell’umanità – circa 3,8 miliardi di persone – non sfiorava nemmeno l’1%. Nel mondo 2.153 miliardari detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale. Il patrimonio delle 22 persone più facoltose era superiore alla ricchezza di tutte le donne africane.

Il rapporto quest’anno si concentra sul lavoro domestico e di cura, sottopagato o non retribuito, che grava soprattutto sulle donne:

A livello globale le donne impiegano 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non retribuito ogni giorno, un contributo all’economia globale che vale almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno, tre volte il valore del mercato globale di beni e servizi tecnologici. Nel mondo – sottolinea ancora il rapporto Oxfam – il 42% delle donne di fatto non può lavorare perché deve farsi carico della cura di familiari come anziani, bambini, disabili; solo il 6% degli uomini si trova nella medesima situazione.

Nel rapporto si legge che questo capitalismo è “sessista e sfruttatore“, come sottolinea Roberto Ciccarelli sul manifesto: “il dominio di classe e quello patriarcale sono fondati sullo sfruttamento del lavoro di cura non retribuito delle donne”. E ancora: ” La situazione può essere descritta in termini marxiani, oggi diffusi anche nelle analisi del lavoro di cura: il lavoro di cura è essenziale alla creazione del valore, ma la forza lavoro che lo produce è invisibile. Inoltre le vite e gli stili di vita dei super-ricchi dipendono dalla sua attività”.

La critica del sistema di produzione è evidente e sottolineata da Ciccarelli nella conclusione del suo articolo:

«UN MILIARDARIO è un fallimento politico». Costruire una società più giusta, libera dalla povertà estrema, richiede la fine della ricchezza estrema, precisa Oxfam. Dal punto di vista di una critica dell’economia politica, il fallimento per una società coincide con il successo del Capitale. Restiamo nell’esigente attesa del tempo in cui «la parte di redentrice delle generazioni future», di cui parlava Walter Benjamin nelle sue tesi sulla filosofia della storia, sarà di nuovo interpretata dagli sfruttati e dagli oppressi. E sarà più facile immaginare la fine del capitalismo, e non quella del pianeta.

L’articolo del Sole 24 ore ovviamente non dice nulla su questo punto, ma quanto meno riconosce l’esistenza e l’inasprimento delle disuguaglianze economiche, cosa che non fanno Luciano Capone e Carlo Stagnaro che sul Foglio smentiscono l’analisi di Oxfam criticandone la metodologia e arrivando a dichiarare che il trend è esattamente opposto; insomma, non siamo stati mai meglio di così ed è merito del capitale. Non stupisce che l’articolo sia rilanciato sul sito dell’Istituto Bruno Leoni, il cui slogan è “idee per il libero mercato”. Ma vediamo nel dettaglio cosa dicono gli autori:

Per capire quanto sia infondato l’approccio scandalistico di questa associazione che ogni anno conquista i titoli dei principali media del mondo come una specie di Codacons globale, basterebbe riprendere gli slogan delle edizioni passate: nel 2017 si denunciava che solo 8 miliardari possedevano la stessa ricchezza di mezzo mondo (3,6 miliardi di persone); nel 2018, per pareggiare la ricchezza della metà più povera, di miliardari ce ne volevano 42; l’anno scorso 26. Quest’anno circa 2 mila. Quindi, secondo lo standard di Oxfam, le cose dovrebbero essere nettamente migliorate. Nonostante il “sistema economico difettoso e sessista”, le distanze tra i fortunati e i più miseri sembrano essersi accorciate: la ricchezza in mano ai miliardari è scesa da 9,2 mila miliardi di dollari nel 2018 a 8,7 nel 2019 (-6 per cento). Questo dato non viene enfatizzato, al contrario di quanto fatto in passato di fronte a cambiamenti di segno opposto.

Agli autori non passa proprio per la testa che se anche la ricchezza dei miliardari diminuisce (ma poveretti!) è sintomo che il capitalismo non riesce a contrastare ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto, un dato scoperto da Karl Marx nel XIX secolo e ancora impossibile da smentire oggi. Tra l’altro a parte quel riferimento en passant al sessismo, ignora completamente l’approfondimento sul lavoro domestico e di cura. L’articolo si occupa inoltre di riprendere alcuni dati del Credit Suisse, fonte usata dalla stessa Oxfam, per dimostrare che le disuguaglianze globali sono in diminuzione e che l’argomento è serio e importante per cui va trattato seriamente, senza citare un economista che si occupi del tema. Anche se non ne condivido le soluzioni, basterebbe Piketty con l’immensa mole di dati che ha raccolto per smontare queste affermazioni. Ma soprattutto gli autori si prodigano nella difesa dell’esistente, uno sport diffuso e che garantisce l’assenza di analisi critica (enfasi mia, in questa citazione e nella prossima):

Questo non significa che povertà e diseguaglianze non siano questioni drammatiche – lo sono eccome. Ma se grazie alla globalizzazione e al capitalismo le cose sono migliorate, dovremmo interrogarci su come progredire ulteriormente rispetto ai trend in atto, anziché rottamarli negandone i risultati. Il risultato più eclatante di questi decenni – e forse della storia – è che la povertà globale si è ridotta drasticamente e con essa anche la diseguaglianza mondiale dei redditi e della ricchezza: e tutto questo mentre la popolazione mondiale cresceva, soprattutto nei paesi più poveri.

Vorrei anche capire se l’economia va bene o meno dal loro punto di vista, perché dicono che stiamo meglio, che i ricchi diminuiscono, le distanze pure, ma se i miliardari diminuiscono dovrebbe essere un nostro cruccio:

La sezione italiana di Oxfam dedica anche uno speciale alla diseguaglianza nel nostro paese. Per cominciare, si vede che anche in Italia da alcuni anni la quota della ricchezza del top 10 per cento è in continua riduzione: dal picco del 56 per cento nel 2016 siamo scesi al 53,6 per cento nel 2019. Oltretutto, si è perfino ridotto il numero di milionari, sceso da 1.516 del 2018 a 1.496 del 2019: forse una buona notizia per Oxfam, ma un pessimo segnale per chiunque abbia l’accortezza di rintracciarvi l’ennesimo indizio di un’economia stagnante.

Si dimenticano anche che è proprio la tendenza del capitalismo quella di concentrare la ricchezza nelle mani di sempre meno persone: il capitalismo sta bene, nonostante tutto, siamo noi a stare male. In conclusione secondo Capone e Stagnaro quella di Oxfam è un’operazione dai toni allarmistici, che ha successo mediatico perché alimenta paure e crea “l’impressione di un’emergenza”, quando invece viviamo nel migliore dei mondi possibili. Dev’essere vero, almeno per chi sta al vertice della piramide, mentre la base, composta da 3,8 miliardi di persone poverissime, con un reddito che non supera l’1% della ricchezza planetaria (sempre Roberto Ciccarelli sul Manifesto) potrebbe pensarla diversamente, ma guai a creare allarmi, rischiamo una rivoluzione!