Cuori allo schermo

Cuori allo schermo.jpgL’antropologia è una disciplina che mi affascina e che purtroppo  ho solo sfiorato durante il mio percorso di studi. Tra gli autori sicuramente fondamentali c’è Marc Augé, per cui appena avuta la possibilità e l’occasione ho preso il testo Cuori allo schermo. Vincere la solitudine dell’uomo digitale. Si tratta di una lunga chiacchierata tra l’etnologo e Raphaël Bessis dalla quale si possono cogliere molti spunti interessanti. Il testo è denso, e probabilmente la mia poca conoscenza della materia mi ha spinto ad annotare davvero parecchie cose, per cui il post risulterà lungo.

Si parte dall’apparente analogia tra l’etnologo e l’homo cyber sul trovarsi contemporaneamente dentro e fuori, quindi in uno spazio liminale, tesi comunque non incoraggiata da Augé il quale sostiene che l’esperienza dell’etnologo può essere simile per alcuni versi ma nella sostanza è decisamente più intensa. Molto interessante è la definizione di antropologia: la centralità data alla relazione e la conseguente importanza dell’esperienza dell’alterità. Per Augé la questione del senso corrisponde al senso sociale; si tratta del simbolico, ovvero la relazione rappresentata ad altri. L’antropologia cambia faccia una volta terminato il sistema coloniale, ma in realtà allarga il suo orizzonte fino a ricomprendere il mondo intero, poiché “la colonizzazione prefigurava le forme attuali di mondializzazione. Oggi siamo nell’era della postcolonizzazione, in cui a operare è il sistema nella sua relazione con ciò che è fuori da quello stesso sistema, e dove esiste una nuova frontiera, un nuovo limite, una nuova esteriorità che del resto, nel linguaggio del turismo e del tempo libero, può mascherarsi da esotismo da quattro soldi”.

Nell’immaginario globalizzato spicca l’assenza di pensiero sul futuro, da cui anche un proliferare di sette e piccoli movimenti, come già in Africa o in America Latina. Sull’assenza di futuro: “sono convinto, senza nessuna ironia, che le scommesse, le  corse e il campionato di calcio migliorino la vita di molte persone; proprio perché aperti sull’avvenire, anche se a brevissimo termine, e perché alimentano il senso di un’attesa”. Forse il concetto per cui Augé è più noto è quello di nonluogo. Nel testo si chiarisce come uno spazio non sia luogo o nonluogo una volta per tutte, ma possa diventare uno o l’altro in base alla situazione particolare e al soggetto coinvolto. Ad ogni modo c’è una tendenza alla moltiplicazione dei nonluoghi, ovvero spazi di comunicazione, di circolazione e di consumo. I nonluoghi in generale si caratterizzano per essere spazi sociali in cui sono assenti identità, relazione e storia.

Il dialogo prosegue sull’onnipresenza delle immagini (nella definizione dell’autore sono sostituti delle persone) e su come queste influenzino o addirittura determinino la realtà: “da una parte eventi di importanza diversa sono considerati allo stesso livello, dall’altra sperimentiamo una specie di attenuazione, quasi un annullamento, della distinzione tra realtà e finzione”. A questo proposito è opportuno citare la definizione di finzionalizzazione: “Il mondo (…) ogni giorno viene disposto meglio per essere visitato, ma ancor più filmato e alla fine proiettato su uno schermo. (…) la finzione invade tutto e l’autore scompare. Il mondo è penetrato da una finzione senza autore”. Augé elabora inoltre l’importante concetto di stadio dello schermo, traslando lo stadio dello specchio che caratterizza una fase della crescita dei bambini, quella in cui riconoscono che l’Io che vedono riflesso è l’Altro. Nello stadio dello schermo accade l’inverso, per cui riconosco che colui che vedo allo schermo, l’Altro, sono io.

Ciò che caratterizza la contemporaneità è la consapevolezza di appartenere allo stesso pianeta: “forse per la prima volta l’umanità è coinvolta nella stessa storia”. L’individualità invece in diverse forme è sempre esistita però “se non c’è più alterità non c’è più individualità”. L’individualismo contemporaneo è costituito da passività e consumo, mentre “la relazione è in crisi, in particolare da quando le sue forme principali sono veicolate dall’immagine”.

Prima di chiudere vorrei condividere alcune definizioni scelte tra quelle riportate alla fine del volume, che mi sembra debbano di diritto stare nella cassetta degli attrezzi di chi si occupa del mondo contemporaneo.

Mondializzazione: termine generale che si riferisce al cambiamento di scala e di riferimento.

Globalizzazione: si riferisce in particolare agli ambiti economico e tecnologico.

Planetarizzazione: si utilizza nelle accezioni ecologiche ed etiche.

Surmodernità: “con questo termine vorrei indicare gli effetti di accelerazione, esuberanza ed eccesso che, lungi dall’abolire o superare la modernità com’era concepita nel XIX secolo, la sovradeterminano e allo stesso tempo la rendono meno leggibile e più problematica”.

 

Stato e rivoluzione

stato e rivoluzione.jpgArrivare a 35 anni avendo letto molto di Marx ma nulla di Lenin è imperdonabile, devo aver pensato quando un po’ di tempo fa presi al volo Stato e rivoluzione, appena lo vidi in una libreria. Un testo che dovrebbero leggere tutti coloro che sbagliando identificano il marxismo con lo stalinismo, o comunque il comunismo con l’URSS, ignorando in buona o cattiva fede la reale dottrina marxiana, Lenin e ciò che sarebbe dovuta essere la rivoluzione comunista se fosse stata integrale. Non si tratta di utopie o immaginazione, come ogni studioso di Marx già sa: il rigore scientifico dello studioso di Treviri è estremo. Lenin interpreta il pensiero di Marx e di Engels alla perfezione, ricordandoci dell’attenzione che i due fondatori del marxismo ponevano ai dati di fatto come ai reali rapporti di forza, un insegnamento a cui non possiamo rinunciare.

LA CONCEZIONE MARXIANA DELLO STATO

L’autentica concezione marxiana dello Stato implica il suo annientamento in quanto esso è strumento di oppressione di classe (“Ogni stato è una “forma  repressiva particolare” della classe oppressa”) e, dopo una necessaria fase di transizione, ovvero la dittatura del proletariato, non ha più ragione di esistere proprio perché la vittoria della classe operaia implica l’abolizione di tutte le classi.

Per Marx lo Stato è l’organo del dominio di classe, un organo di oppressione di una classe su un’altra; è la creazione di un “ordine” che legittima, legalizza e rinsalda questa oppressione, attenuando il conflitto tra le classi.

Dopo l’esperienza storica delle rivoluzioni incompiute avvenute in Europa tra il 1848 e il 1851 Marx perfeziona ciò che era solo abbozzato nel Manifesto del partito comunista “in maniera ancora troppo astratta, generica” per quanto concerne almeno la pars destruens della rivoluzione; così Lenin: “e questo Stato proletario dovrà necessariamente estinguersi immediatamente dopo aver ottenuto la vittoria, perché in una società senza antagonismi e lotta di classe lo Stato è un organismo inutile”. L’esperienza della Comune di Parigi è un altro tassello essenziale che conferma a Marx quanto sia necessario annientare la macchina statale e non solo prenderne possesso: “condizione preliminare essenziale di ogni rivoluzione popolare (…)”. Inoltre, le vicende parigine permettono di elaborare meglio anche la cosiddetta pars construens, quindi la realtà della società comunista; in particolare occorre lo scioglimento dell’esercito permanente, quindi il monopolio della forza in mano allo Stato va sostituito con il popolo armato a difesa della rivoluzione e inoltre è ugualmente necessaria la totale eleggibilità e revocabilità di ogni funzionario per eliminare la burocrazia. Questo perché, e qui Lenin si rifà ad Engels e alla terza edizione della Guerra civile in Francia del 1891 in cui è data “l’ultima parola del marxismo sulla questione in esame”: “anche nella repubblica democratica, lo Stato rimane lo Stato; conserva cioè la sua caratteristica fondamentale: far divenire i funzionari e servitori della società padroni della stessa”.

CHI È MARXISTA

In tempi in cui il conflitto di classe, anzi la stessa sussistenza delle classi sociali è dai più messa in dubbio se non ignorata, chi lo riconosce potrebbe sembrare dalla parte “giusta” della storia ma ciò in realtà non è sufficiente, come dimostra un altro passo del testo di Lenin che sento di dover citare:

Colui che si accontenta di riconoscere il conflitto tra classi non è ancora un marxista ed è possibile che egli non riesca a spingersi oltre i limiti del pensiero e della politica borghese. Ridurre il marxismo alla lotta tra classi significa mutilarlo, farne ciò che è ritenuto accettabile dalla borghesia.

Marxista lo è soltanto colui che estende il riconoscimento della lotta tra classi sino all’accettazione della dittatura del proletariato. In questo consiste la differenza più profonda tra il marxista e il banale piccolo e grande borghese. È in questo che bisogna mettere alla prova la comprensione e il riconoscimento effettivi del marxismo.

Nella temperie del 1917, Lenin aveva preparato il piano di un ulteriore capitolo che però rimanda con l’avvento dell’Ottobre. Vorrei poter scrivere come fece nel Poscritto alla prima edizione, “è più piacevole e più utile fare “l’esperienza di una rivoluzione” piuttosto che scrivere un volume su di essa” ma devo fidarmi sulla parola, nell’attesa del sol dell’avvenir.

Aspettando la sinistra di sinistra

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Dov’è la sinistra oggi in Italia? La domanda è particolarmente complessa e forse prima di rispondere sarebbe opportuno chiarire cosa non sia sinistra. Letto subito dopo il necessario La buona educazione degli oppressi di Wolf Bukowski col quale si può ben fare un discorso comune, mi viene in soccorso l’ottimo libro del compagno Vanetti La sinistra di destra, il cui sottotitolo recita Dove si mostra che liberisti, sovranisti e populisti ci portano dall’altra parte. Un testo fondamentale in cui si chiarisce

come il mito liberale del tramonto della classe operaia ci abbia portato alle concezioni interclassiste del populismo; come pezzi di sinistra abbiano progressivamente accettato una logica di chiusura e controllo delle frontiere che è sfociata infine nella xenofobia; come si sia tentato da più parti di allentare e spezzare il nesso tra l’emancipazione sociale e la lotta per la parità delle donne e per i diritti legati alle identità e agli orientamenti sessuali; come si siano avanzate pericolose riletture “da sinistra” dei concetti di patria e sovranità; come, infine, si sia declinata la necessaria critica ai rapporti di potere e sfruttamento in Europa in forme subalterne o al pensiero europeista mainstream o alle posizioni nazionaliste dell’euroscetticismo di destra. (p. 11)

Tra i pregi del libro che mi preme sottolineare c’è certamente la chiarezza espositiva evidentemente derivata dall’impianto marxista e quindi dal materialismo dialettico.

Tornando agli argomenti del libro, la subalternità della sinistra di destra comunque declinata al realismo capitalista viene egregiamente spiegata dedicando ogni capitolo ad un argomento, toccando così diversi snodi fondamentali: le classi sociali esistono ancora, chi l’avrebbe mai detto; il razzismo come discriminante essenziale: Marx non era razzista e chi si nasconde dietro mezze citazioni ritagliate alla bisogna non è di sinistra, figurarsi marxista – all’interno del capitolo anche un po’ di dati di cui la realtà effettivamente è costituita, al di là delle percezioni; l’uguaglianza tra uomini e donne dev’essere sostanziale o non è, la misoginia travestita da difesa della famiglia tradizionale è di destra; i rossobruni non saranno più di moda mentre il sovranismo di sinistra è un ossimoro, il socialismo è internazionalista, altrimenti non ha senso (spoiler: riformare quest’Europa non si può, avete presente Tsipras? Anche la sovranità popolare è un feticcio inutile di fronte al capitale: se sbagli a votare il voto non avrà alcun significato); Keynes non è Marx e si vede. I no euro come Bagnai sono arrivati dal postkeynesismo alla Lega senza passare dal via. E a proposito di Lega, il governo del cambiamento doveva uscire dall’euro e invece eccoci qua. È più facile tirarsi indietro e gridare al complotto dei poteri forti piuttosto che provarci, anche per gioco.

Tra mille rivoli la sinistra nel paese c’è ancora, è slegata, confusa, ma nei territori si muove e forse ha solo bisogno di riconoscersi. Innumerevoli sono le realtà di base che seguendo il testo si riconoscerebbero in quel che non sono. Sarebbe già un passo avanti, in attesa di riconoscere chi sono, chi siamo: la sinistra di sinistra.

L’obsolescenza programmata delle leadership

sintesi

La sintesi della giornata politica di ieri. Da una pagina Facebook.

Poco più di un mese fa la solita piacevole chiacchierata sulla desolazione della politica nostrana mi ha indotta a formulare l’espressione che dà il titolo a questo post. In quel momento ancora non si poteva prevedere la fine del governo in un tempo così breve, allo stesso modo però era evidente a chi volesse vedere che il tizio che si era intestato il potere come fosse un uomo solo al comando, convinto di rappresentare tutti gli italiani, era terribilmente gonfiato in primis dai media tradizionali e dall’apparente uso scaltro dei social e della comunicazione. La parabola delle leadership, a prescindere dai singoli, è comunque sempre più breve, coerentemente con l’accelerazione della realtà operata ormai dalla società dell’immediato (oserei dire della fuggevolezza, che suona più gradevole).

Siamo arrivati quindi all’obsolescenza programmata delle leadership? Fermo restando che il ruolo di chi prende il timone del paese è mantenere lo status quo e al più illudere su qualche fantomatico cambiamento, in un modo che non avrebbe stupito Tomasi di Lampedusa, la velocità con cui ultimamente si affermano per poi scomparire i leader sembrerebbe suggerire la traiettoria delle meteore. Questa è in realtà una novità assoluta soprattutto in Italia dove la politica è sempre stata particolarmente ingessata; e dove uno come Berlusconi nonostante i tempi cambiassero, sembrava non finire mai politicamente. Per il futuro questa accelerazione con molta probabilità resterà forse anche per garantire l’apparenza di quei cambiamenti che la democrazia parlamentare sempre meno può sperare di introdurre.

Ad ogni buon conto, occorre ringraziare anche i fautori e i numerosi partecipanti al grande #attaccopsichico che ha contribuito alla caduta della rana:

Attacco psichico

Per chi volesse approfondire, su Twitter tramite l’hashtag #attaccopsichico si possono scoprire le dimensioni del fenomeno e capirne le origini, anche e soprattutto attraverso l’account della @Wu_Ming_Foundt.

Attacco psichico 2

 

 

Non pensare all’elefante!

Chiunque abbia letto Non pensare all’elefante! prima delle elezioni statunitensi del 2016 ha sicuramente messo in conto la probabile vittoria di Donald Trump. Il testo infatti ha tra i suoi pregi quello di comprendere e spiegare in maniera egregia il pensiero conservatore e i suoi meccanismi, permettendo in tal modo di rispondere alla domanda che molti si sono posti all’indomani dell’elezione di Trump: come è potuto accadere? 

LakoffAl netto dell’esaltazione per i genuini valori americani (ovviamente borghesi e capitalistici) il libro fornisce un quadro esauriente della dicotomia tra progressisti e conservatori, ma soprattutto è importante la spiegazione del ruolo fondamentale delle metafore e dei frame nel pensiero umano in generale ed in quello politico in particolare. È un discorso imprescindibile per controbattere l’ondata montante di razzismo, che ha raggiunto livelli imbarazzanti ad esempio in Italia. Di fronte allo sconforto che prende chi, come me, non riesce a farsi una ragione per quel che accade tutto intorno, quotidianamente, questo libro incoraggia una resistenza linguistica, di pensiero e di azione.

“La verità – da sola – non ci renderà liberi. Dire la verità sul potere non basta“, questo è l’insegnamento basilare secondo Carofiglio, autore della prefazione italiana al testo. Partendo dal presupposto che dietro ogni pensiero c’è un frame, una cornice più ampia in cui questo si inserisce e da cui trae senso, bisogna rendersi conto che

la negazione di un frame non solo attiva quel medesimo frame, ma lo rafforza tanto più quanto si continua ad attivarlo. Cosa questo implichi nel discorso politico è evidente: quando discutiamo con qualcuno dello schieramento opposto al nostro utilizzandone il linguaggio, attiviamo i frame di quello schieramento, rafforzandoli in chi ci ascolta a scapito dei nostri. Alla luce di ciò i progressisti, ad esempio, dovrebbero evitare di usare il linguaggio dei conservatori e i relativi frame che quel linguaggio attiva, ed esprimere invece le loro convinzioni utilizzando il proprio linguaggio al posto di quello degli avversari.

Vorrei vedere queste frasi stampate in ogni circolo, stanza, ufficio, casa, di chiunque non si riconosca nell’apparente maggioranza molto poco silenziosa che sembra dominare il discorso pubblico attuale. Speranza vana? Nel nostro piccolo ognuno di noi dovrebbe seguire i suggerimenti di Lakoff, perché se è vero che “i candidati progressisti e democratici tendono a seguire i sondaggi per decidere se diventare più “centristi”, se spostarsi più a destra. I conservatori, invece, non si spostano mai a sinistra, eppure vincono”, dovremmo cambiare radicalmente approccio. Ancora Lakoff: “non spostiamoci a destra. Lo spostamento a destra è pericolo per due motivi: allontana la base progressista e aiuta i conservatori ad attivare il loro modello negli elettori biconcettuali*”. (Siete autorizzati a lanciare una copia del libro a qualsiasi elettore/simpatizzante/esponente del PD, chissà che per osmosi non funzioni). La scienza ci spiega come sia possibile che persone comuni, magari appartenenti alle classi medio-basse, possano sostenere posizioni razziste e classiste fino a votare contro i propri interessi:

Uno dei principali risultati della scienza cognitiva è la scoperta che le persone pensano in termini di metafore e frame, (…). I frame si trovano nelle sinapsi del nostro cervello, fisicamente presenti sotto forma di circuiti neuronali. Quando i fatti non corrispondono ai frame, i frame restano lì, fermi e immutati nel nostro cervello, mentre i fatti vengono ignorati e scivolano via.

Non vuol dire per questo che non si possa contrastare la tendenza in atto. Occorre però tempo e impegno costante e concreto per creare e diffondere frame opposti a quelli ora dominanti. Vorrei chiudere facendo un esempio, citando nuovamente il libro in una delle pagine più di sinistra che contiene:

Ai conservatori piace parlare di imprenditori e investitori benestanti come di “creatori di lavoro”, o di persone che “donano” un lavoro alla gente, come se il lavoro fosse un regalo che si offre alle persone disoccupate. Che assurdità. La verità è che i lavoratori sono creatori di profitto, e che nessuno sarebbe assunto se non contribuisse al profitto di imprenditori e investitori. Questa è una verità fondamentale: i lavoratori producono profitto. Ma qualcuno lo dice? Quante volte, se mai vi è successo, avete sentito pronunciare questa verità? Eppure è una verità importante perché rinquadra la questione del lavoro dalla prospettiva del contributo fornito dai lavoratori.

 

* sono biconcettuali quelle persone, suppongo la maggioranza in realtà, che condividono sia posizioni progressiste che conservatrici, a seconda degli argomenti o dei contesti.

Carlo e il nostro presente

Quando ci fu il G8 di Genova ero praticamente una ragazzina e vedendo le immagini in tv pensai, più col senso comune che col buon senso, che quel ragazzo non avrebbe dovuto alzare un estintore. Questo giudizio superficiale è diffuso, diffusissimo anche oggi e mi fa male, perché con gli anni ho potuto capire quale cesura rappresenta Genova 2001 e la gravità di quelle giornate: “la più grave sospensione dei diritti in un paese occidentale dal dopoguerra” e questa frase non è un falso. Per anni ci sono state due narrazioni contrapposte, quelle informate, documentate, che cercavano invano di farsi strada nel mainstream e quelle di senso comune, superficiali, istituzionali perché sì, perché la divisa è potere e il potere lo si difende a prescindere, troppo abituati ad obbedire per pensare solamente di criticare l’operato di chi comanda. Oggi la narrazione più vicina alla verità è minoranza della minoranza, mentre il potere è più becero di 17 anni fa ed in realtà non troppo diverso da allora. Credo che se fossimo stati più capaci negli anni di ribaltare il senso comune su un estintore oggi non staremmo dove stiamo, sull’orlo della barbarie, incuranti di ributtarci tra le braccia del fascismo inseguendo quelli che sembrano più forti solo perché hanno un megafono (cit. Saunders).

È anche per questo che dopo tutti gli anni trascorsi occorre ricordare Carlo. Lo dobbiamo difendere come e più di prima, perché quei giorni bui non sono solo un ricordo ma possono essere il nostro prossimo futuro, e avremmo davvero bisogno di Carlo.

La gente

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Copertina del libro, edito da minimum fax

Il libro di Leonardo Bianchi è un viaggio drammaticamente accurato, a tratti desolante ma necessario, nell’Italia di oggi e sicuramente ci aiuta a capire come siamo arrivati a questo punto, a un passo dal governo penta-leghista. Si parte dalla nascita del mito della Casta, con l’uscita del libro dei giornalisti Rizzo e Stella, che ha superato nelle conseguenze le intenzioni degli autori, generando anche un filone di testi dedicati alle mille caste del nostro paese, e si passa per il “più improbabile movimento di protesta dell’Italia repubblicana” il #9dicembre, tra forconi e figuri destri che falliscono l’appuntamento con la rivoluzione (!)… ve li ricordate quando dovevano circondare il parlamento e forse con la forza del pensiero, boh, mandare tutti a casa? Si prosegue e dalla guerra alla casta si passa al cittadino indignato che si voleva prendere le periferie romane, a quello di Gorino, il paese più assurdamente nimby d’Italia, che ha alzato le barricate pur di non accogliere 12 donne, di cui una incinta, e tristemente ci è riuscito, fino a Stacchio che suo malgrado è assurto ad eroe della gente, tirato per la giacchetta anche da quelli che forse, se gli conviene, ci vorrebbero governare subito, aspiranti a creare un novello Far West. Si arriva alla crociata contro la fantomatica “ideologia gender“, una pantomima che solo da noi poteva avere un seguito così, così, come posso dire? In piedi? Del resto nel Belpaese anche le teorie del complotto sono diffusissime e ce n’è per tutti i gusti. L’analisi di questi fenomeni, la vista delle numerose pagine fasciste, il proliferare ed il successo di siti che diffondono bufale prevalentemente razziste solo per raccogliere click e guadagnarci, a me sembrano la conferma della correlazione tra fascismo e stupidità. Il libro verso la fine si occupa anche del triste caso della campagna per il Sì al referendum, quella della solenne batosta presa da Renzi (ogni tanto una gioia). Batosta presa nonostante l’occupazione militare e la conseguente trasformazione di diverse pagine “buongiorniste”. Renzi prima e dopo il referendum si è buttato sul gentismo, anzi a ben vedere la sua figura racchiude diversi tratti della specie sin dalla sua comparsa sulle scene nazionali. In sintesi, c’è una galassia di minchiate che quotidianamente domina lo spazio web, in larga misura Facebook, e questo nella vita “reale” ha spiacevoli conseguenze, da ultimo l’ascesa dei Salvini e dei Di Maio che non a caso vivono, soprattutto il primo, nelle dirette sul social. Finché uno varrà zero e la gente trionferà, viene da pensare.

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La gente commenta uno sbarco di migranti a Messina, schermata fotografata ieri.

Sostenere il paradosso

Partecipare alla campagna elettorale di Renato Accorinti è un’esperienza incredibile, innanzitutto perché non sembra tale. Non si fanno passerelle, sfilate, sparate né incontri vuoti di idee quanto pieni di interessi. Si incontra la gente, si parla, si discute e ci si confronta. Si racconta cosa è stato fatto e si spiega come si vuole proseguire il percorso. Le persone ascoltano, domandano, si arrabbiano anche e si fa tutti insieme politica, quella vera.

Renato a S. Margherita
Non so come andrà a finire, sono più speranzosa col trascorrere dei giorni, vedendo la partecipazione, l’impegno, l’affetto che circondano il progetto di CMdB, sono però sicura che in buona misura abbiamo già vinto: quando vedo tanti giovani, e non solo, condividere una visione della società e della politica, vera, pulita, lontana dai guasti che mafie e corruzioni hanno portato, altrettanto lontana dalle finte rivoluzioni, dalle novità già vecchie che sanno di scaduto e che piuttosto fanno il vuoto intorno.

Mi piacerebbe che tutt*, soprattutto chi non si sente affatto vicino all’esperienza di Renato e di Cambiamo Messina dal Basso, chi ha già qualcuno per cui parteggiare, spesso senza una reale motivazione, partecipasse a qualche incontro, qualsiasi iniziativa che di qui al 10 giugno si terrà in giro per la città. Ascoltare, partecipare, informarsi, conoscere, parte tutto da lì.

È dovere di ogni cittadino informarsi. (Renato Accorinti)

Sentire dire anche da persone che stimi che l’amministrazione Accorinti non ha fatto niente lascia basiti. Come quando qualcuno ha il coraggio di dire, ma più facilmente di scrivere sui social, che si tratta del peggiore sindaco dimenticandosi di botto decenni di malgoverno, commissariamenti ed umiliazioni che la città ha dovuto subire per colpa di una classe politica, quella sì, veramente infima. Dimenticano le persone che cinque anni fa nessuno voleva governare una città destinata al dissesto, tutti i big si sfilavano lasciando campo libero per la prima volta. Ora che la giunta Accorinti, anche con un consiglio senza maggioranza ha realizzato praticamente un miracolo sono ricomparsi i lorsignori e vorrebbero raccogliere i semi da altri piantati, e se la storia insegna qualcosa, non nell’interesse dei cittadini. Non c’è un vero outsider nella corsa a palazzo Zanca se non l’attuale sindaco. È un paradosso meraviglioso che occorre difendere e continuare a sostenere per il bene comune. #nonsitornaindietro

Venti di guerra

Soffiano minacciosi questi venti. Parlano di una guerra più pericolosa di quelle a cui i nostri tempi ci hanno abituato, perché su larga scala, diretta tra le superpotenze. Chi vuole sa che non sono mai mancate le guerre, ci sono decine di conflitti in giro per il mondo ma apparentemente non ci riguardano, sembrano tanti casi isolati e restando nella nostra bolla ci convinciamo che dal ’45 le Nazioni Unite e poi il progetto europeo ci hanno liberato dal conflitto. Non è così, ovviamente, ma i venti che spirano in questi giorni sono particolarmente preoccupanti, perché il rischio è uno scontro diretto tra USA e Russia, con il casus belli siriano pronto alla bisogna. Ciò non è dovuto tanto o  solo alla presenza di soggetti come Trump, che rendono più simile ad un degno statista persino un Bush, c’è uno scenario internazionale, politico ed economico, con ampi rimandi agli anni Trenta del Novecento. La crisi del ’29 fu terribile e niente riuscì a domarla, fino a quando una guerra, devastante come mai fino ad allora, “salvò” il sistema. Pagammo un prezzo altissimo e già ce ne dimentichiamo. Molti paragona(va)no la crisi del 2008, per la sua portata e pervasività, a quella del 1929. Lentamente, col passare degli anni, si è tornati a dire invece che la crisi ce l’abbiamo alle spalle. Sono passati dieci anni, ma non è davvero finita, la ripresa se c’è stata è risultata molto debole. (Michael Roberts da anni parla di long depression)

SyriaIl capitale freme, è impaziente: l’industria bellica, in primis quella statunitense, non si accontenta più delle briciole dei tanti conflitti locali. Trump ha provato a darle risposte giocando alla guerra con Ping Pong (cit.) e per fortuna da quella parte il pericolo è rientrato. Nel frattempo gioca a fare le guerre commerciali istituendo dazi, complicando ancora di più lo stato della cosiddetta globalizzazione, che per chi non lo sapesse arranca già da un po’ (qui e qui per fare due esempi).

Intanto con la scusa delle armi chimiche la situazione in Siria rischia di precipitare, e non si tratterebbe di un nuovo Iraq, c’è in gioco molto, molto di più. Su Internazionale una sintesi, proprio in pillole, del conflitto siriano. Mi riprometto da un po’ invece, e DEVO farlo, di leggere il libro di chi è andato in Siria, a combattere l’Isis, e ci ha fatto dono della sua esperienza.

Giusto terrore

giusto-terrore-350x485Le parole hanno più di una storia e le armoniche di senso risuonano in modi diversi nel tempo, nella comunità e nel singolo che parla, ricorda e scrive. Siamo parlati dal linguaggio, ma proprio per questo dobbiamo negarci ogni estasi etimologica, non importa che in uccidere si celi caedo, verbo tecnico dei latini per il togliere la vita nel sacrificio: non significa nulla di più. (p. 43)

Conosco Alessandro Gazoia da quando scriveva con lo pseudonimo @jumpinshark  sul web, devo a lui qualcosa del buono che allora girava sui blog, una curiosità per la semiotica e la linguistica che presto o tardi mi riprometto di soddisfare e soprattutto la verità profonda su cosa costituisca il web. Quando in libreria ho visto il suo nuovo libro non ho potuto resistere e così l’ho preso. L’ho letto velocemente, con la spinta ad andare avanti che solo un buon libro sa darti. Una delle prime impressioni positive riguarda il linguaggio, stimolante e curato in maniera impeccabile e sapiente. Questo è un aspetto che anni fa non avrei considerato particolarmente, perché tendevo a leggere voracemente tralasciando stili e abilità nella scrittura, mentre col passare degli anni sono diventata più attenta ed anche esigente. Lo stile però non dev’essere fine a se stesso e il testo non delude proprio perché tra forma e contenuto rilevo un’armonia eccellente. Appassionata di saggistica e di narrativa, quelli che qualcuno definisce oggetti narrativi non identificati, a cavallo tra fiction e realtà in un inestricabile quanto efficace connubio adoro leggerli, e immagino siano particolarmente complessi in fase di scrittura.

Giusto terrore affronta il tema del terrore contemporaneo, jihadista ma anche novecentesco e brigatista, in un auto-racconto che non è mai banale né forzato. Piacevole anche quando duro, efficace nel miglior senso possibile, ci guida tra le “storie del nostro tempo conteso” e ci racconta l’Italia delle lotte operaie della fase di reflusso, il passaggio dal tutto è possibile al tutto è già successo, la nascita dell’estremismo islamico contemporaneo e il futuro già presente che ci dà il giusto terrore. Ho chiuso il libro soddisfatta e quasi orgogliosa per lui. È uno di quei libri che mi fa pensare “mi piacerebbe saperlo scrivere”.