2021: work in progress

Qualche giorno fa ricordavo parlando con un amico che è trascorso un anno da quando ho cancellato il mio account Facebook. Alla domanda secca “come ti senti?” la prima risposta spontanea è stata “una persona normale”, perché davvero non è che abbia stravolto la mia vita da allora, sebbene il tempo “liberato” non sia poco. Del resto finché sto su Twitter e in misura minore su Mastodon non è che sia davvero “libera” dalla gamification, dall’infinite scroll, dal FOMO (Fear Of Missing Out), e da tutto il contorno che i social network comportano, seppure ognuno in diversa misura.

Su Twitter, posso dire che mi trovo ancora comoda nella mia bolla, raccolgo ogni tanto qualche utile news e partecipo al costante rumore di fondo, in fondo insignificante, in maniera tutto sommato dignitosa, credo. Su Mastodon avrei qualche riserva, non sull’idea in sé di federazione dei mezzi, quanto sulle pratiche adottate realmente sui singoli nodi. Mi ero iscritta all’istanza di tendenza anarchica bolognese Bida e dopo ripetute segnalazioni ho deciso di cambiare: i miei post di condivisione dal sito di Sinistra Classe Rivoluzione erano trattati alla stregua dei post di Gasparri, in fondo. Esagero forse, però sentirmi dire che non è consentita propaganda partitica quando se solo si desse un’occhiata al sito Rivoluzione si comprenderebbe l’assurdità dell’accusa mi ha veramente intristita. Trasferitami su Cisti, istanza di posizioni simili torinese, non avevo letto nelle policy la stessa discriminante antipartitica che pure c’è, ma dopo un primo messaggio non ho ricevuto più moniti, continuando a condividere, fino ad ora, senza problemi. Sinceramente vorrei che se ne discutesse perché il fatto di volersi distinguere dai soliti social non dovrebbe diventare un alibi per creare pratiche inutilmente escludenti, proprio in ambienti dove si dice che la sua cifra sia l’inclusività (anche se da certe discussioni che ho visto en passant non sempre si riesce).

Ad ogni modo come mi ero ripromessa oltre ai libri ho mantenuto costante la lettura dei blog grazie all’aggregatore Feedly permettendo di seguire il mio flusso personale di argomenti e interessi fuori da trending news e trending topics che fuori e dentro Twitter spesso sono semplicemente tossici. Sulla “polemica del giorno” ci sarebbe da scrivere perché troppo facilmente si trova appagamento nel partecipare in fondo in maniera inconcludente alle discussioni online di moda senza alcun valido riscontro se non per il proprio ego, con risultati quindi alla fin fine negativi per l’ecologia della mente, e della rete.

Il processo di Degoogling invece è sempre in fieri, come principale “progresso” alla fine del 2020 nel cambiare telefono ne ho scelto uno senza i google services, e a parte qualche compatibilità mancante per alcune app, che suppongo verranno col tempo sistemate, mi trovo bene. Le mail invece non le ho definitivamente migrate, per motivi di lavoro e di pigrizia, sto cercando comunque di portare quanto più possibile su protonmail, sperando di chiudere prima o poi quest’infinito percorso. Intanto i lavoratori di Google, anzi di Alphabet, ci portano belle notizie, ovvero la loro prima sindacalizzazione. Buona notizia che fa il paio con il rifiuto dell’estradizione a Julian Assange da parte di un tribunale britannico, dandoci qualche fievole speranza di un 2021 migliore. Vittorie parziali che ci devono ricordare che la lotta è un processo e non un singolo evento.

Mindf*ck

Mindf*ck è un’importante tappa nel percorso di letture e riflessioni che riguardano il mio processo di consapevolezza intorno all’uso e ai rischi mindfuckinsiti nei social media. Leggerlo  a ridosso delle elezioni USA 2020 ha poi un sapore particolarmente agre, perché la conoscenza non sempre “libera” ma in ogni caso aiuta a costruire strumenti di consapevolezza e per quanto possa fare male, è necessario per agire e non solo reagire. Quando inizio a buttar giù queste parole non si sa ancora, siamo nel pomeriggio del 4 novembre, se Trump sarà di nuovo presidente o se sarà sconfitto, nel machiavellico sistema di voto tutto loro, dal decotto sfidante “Sleepy Joe” Biden. (Finisco la revisione del testo definitivo la sera del 7, da poche ore con i risultati della Pennsylvania è stata finalmente ufficializzata la vittoria di quest’ultimo).
Nel XXI secolo la politica è completamente pervasa da ciò che accade nell’infosfera. Nella parte finale del testo Christopher Wylie si dilunga nello spiegare come le piattaforme dovrebbero essere preventivamente valutate se sicure prima di essere rese operative, così come accade ad esempio per gli edifici. Si usano i termini ingegneri ed architetti anche nel settore informatico e non è un caso:

Every connected device and computer is part of an interconnected information architecture – and shapes your experience of the world. The most common job titles in most Silicon Valley companies are engineer and architect, not service manager or client relations. But unlike engineering in other sectors, tech companies do not have to perform safety tests to conform to any building codes before releasing their products. Instead, platforms are allowed to adopt dark pattern designs that deliberately mislead users into continual use and giving up more data. Tech engineers intentionally design confounding mazes on their platforms that keep people moving deeper and deeper into these architectures, without any clear exit. And when people keep clicking their way through their maze, these architects delight in the increase in “engagement”.

Viviamo una parte rilevante della nostra esistenza online e la netta separazione tra la nostra vita online e offline non ha più molto senso. Se ne è reso conto Wylie quando è stato bannato da Facebook e Instagram dopo essersi esposto come whistleblower, ma dovrebbe essere chiaro a tutti noi

Although many users tend to distinguish between what happens online from what happens IRL (in real life), the data that is generated from their use of social media – from posting reactions to the season finale of a show to liking photos from Saturday night out – is generated from life outside the Internet. In other words, Facebook data is IRL data.

Cos’è Cambridge Analytica?

Christopher Wylie è un personaggio particolare; mi è venuto all’attenzione guardando The Great Hack, che sfortunatamente non ho recensito, e non corrisponde affatto allo stereotipo che si potrebbe immaginare trovarsi dietro la storia di Cambridge Analytica. Queer canadese di idee liberal, ha finito per contribuire al successo, ottenuto anche per via illegale, della Brexit e dell’ascesa di Trump al potere, partendo da un progetto di data scientists che forse ingenuamente pensavano all’inizio di identificare e combattere l’estremismo radicale online e hanno finito per alimentarlo, non casualmente ma per un piano predeterminato. E così nasce Cambridge Analytica, che acquisisce tranquillamente un’immensa mole di dati da Facebook, essendo entrambe aziende private. Ma cos’è Cambridge Analytica?

A collection of documents I provided to law enforcement revealed that the Vote Leave campaign had used secret Cambridge Analytica subsidiaries to spend dark money to propagate disinformation on Facebook and Google ad networks. This was determined to be illegal by the U.K.’s Electoral Commission, with the scheme ending up as one of the largest and most consequential breach of campaign finance law in British history.

The story of CA shows how our identities and behavior have become commodities in the high-stakes data trade. The companies that control the flow of information are among the most powerful in the world; the algorithms they’ve designed in secret are shaping minds in the United States and elsewhere in ways previously unimmaginable.

Although Cambridge Analytica was created as a business, I learned later that it was never intended to make money. The firm’s sole purpose was to cannibalize the Republican Party and remold American culture.

Quando gli hanno chiesto cosa fosse Cambridge Analytica Wyilie ha dato la risposta più sintetica ma forse efficace: “it’s Steve Bannon psychological mindfuck tool”.

Occorre anche tenere bene a mente però che la prima campagna politica che ha usato con successo ai fini elettorali i nuovi sistemi di raccolta dati e gli algoritmi è stata quella che ha portato all’elezione di Obama: “BUT BY DIRECTLY COMMUNICATING select messages to select voters, the microtargeting of the Obama campaign had started a journey toward the privatization of public discourse in America. Although direct mail had long been part of American campaigns, data-driven microtargeting allowed campaigns to match a myriad of granular narratives to granular universes of voters – your neighbor might receive a wholly different message than you did, with neither of you being the wiser”. Questo libro è utilissimo anche per comprendere come i polls non riescano ad intercettare minimamente gli “umori” dell’elettorato, e lo ribadisce su Twitter in questi giorni Wylie,Wylie Tweet non si tratta solo dell’inaspettata, per i più, vittoria di Trump di quattro anni fa, anche in queste elezioni la stragrande maggioranza di osservatori e analisti dava per scontata una schiacciante vittoria di Biden, cosa smentita sin dai primi risultati.

What microtargeting did was find extra data sets, such as commercial data about a voter’s mortgage, subscriptions, or car model, to provide more context to each voter. Using this data, along with polling and the statistical techniques, it’s possible to “score” all of the voter records, yielding far more accurate information.
When everyone else is focused on the public persona of the campaign, strategists are focused on deploying and scaling this hidden machinery.

E ancora, allargando il quadro: “In the years leading up to the first Obama campaign, a new logic of accumation emerged in the boardrooms of Silicon Valley: Tech companies began making money from their ability to map out and organize information. At the core of this model was an essential asymmetry in knowledge – the machines knew a lot about our behavior, but we knew very little about theirs”. Qui entrano in gioco i sistemi studiati dalle piattaforme per incrementare i dati regalati dagli utenti visti i profitti che riuscivano a generare.

Il ruolo di Facebook

Facebook is no longer just a company, I told them. It’s a doorway into the minds of the American people, and Mark Zuckerberg left that door wide open for Cambridge Analytica, the Russians, and who knows how many others. Facebook is a monopoly, but its behavior is more than a regulatory issue – it’s s threat to national security. The concentration of power that Facebook enjoys is a danger to America democracy.

Cambridge Analytica was a company that took large amounts of data and used it to design and deliver targeted content capable of moving public opinion at scale. None of this is possible, though, without access to the psychological profiles of the target population – and this, it turned out, was surprisingly easy to acquire through Facebook, with Facebook’s loosely supervised permissioning procedures.

Facebook did not require express consent for apps to collect data from an app user’s friends, as it viewed being a user of Facebook as enough consent to take their data – even if the friends had no idea the app was harvesting their private data.

A ragionarci superficialmente si potrebbe pensare che si esagera la portata e la capacità predittiva dei dati raccolti da Facebook ma non è proprio così:

In fact, a 2015 study bu Youyou, Kosinski, and Stillwell showed that, using Facebook likes, a computer model reigned supreme in predicting human behavior. With ten likes, the model predicted a person’s behavior more accurately than one of their co-workers. And with 300 likes, the model knew the person better than their own spouse. This is in part because friends, colleagues, spouses, and parents typically see only part of your life, where your behavior is moderated by the context of that relationship.

A Facebook interessa solamente aumentare l’engagement e non è affatto detto che ciò non possa comportare conseguenze pesantissime. È il caso della pulizia etnica dei Rohingya, “in March 2018 the U.N. concluded that Facebook played a “determining role” in the ethnic cleansing of the Rohingya people. Violence was enabled by Facebook’s frictionless architecture, propelling hate speech through a population at a velocity previously unimaginable”.

Rising engagement

For Facebook, rising engagement is the only metric that matters, as more engagement means more screen time to be exposed to advertisements. This is the darker side of Silicon Valley’s much celebrated metric of “user engagement”. By focusing so heavily on greater engagement, social media tends to parasitize our brain’s adaptive mechanisms. As it happens, the most engaging content on social media is often horrible or enraging. (…) Social media platforms also use designs that activate “ludic loops” and “variable reinforcement schedules” in our brains. These are patterns of frequent but irregular rewards that create anticipation, but where the end reward is too unpredictable and fleeting to plan around. This establishes a self-reinforcing cycle of uncertainty, anticipation, and feedback. (…) In gambling, a casino makes money from the number of turns a player takes. on social media, a platform makes money from the number of clicks a user performs. This is why there are infinite scrolls on newsfeeds – there is very little difference between a user endlessy swiping for more content and a gambler pulling the slot machine lever over and over.

Il discorso sulla gamification è importante e andrebbe eviscerato, ma già in questo post sto andando lunga, vista la miniera di spunti che il libro mi dà. In qualche mio post sul tema comunque ne ho già accennato, ad esempio qui o nel post sul libro della Zuboff. Wylie fa un passo oltre, pensando al futuro non tanto remoto:

And tech has caught on to this with its research into “user experience”, “gamification”, “growth hacking”, and “engagement” by activating ludic loops and reinforcement schedules in the same way slot machines do. So far, this gamification has been contained to social media and digital platforms, but what will jhappen as we further integrate our lives with networked information achitectures designed to exploit evolutionary flaws in our cognition? Do we really want to live in a “gamified” environment that engineers our obsessions and plays with our lives as if we are inside its game?

C’è anche il discorso sulla possibilità di scelta, e Wylie dice chiaramente che le piattaforme hanno fatto di tutto per diventare scelta obbligata dei consumatori. Esperienza diretta, la scuola dell’infanzia che frequenta mio figlio, in vista di eventuali chiusure, ci ha richiesto il consenso per attivare a suo nome un account G Suite, mantenendo la libertà formale tanto cara al capitalismo, mentre in pratica se rifiutiamo non ci sono alternative e il bambino si troverebbe tagliato fuori da qualsiasi forma di didattica. A proposito dei cantori della libertà nel capitalismo!

Il modello a cinque fattori, i bias cognitivi e Steve Bannon

Strettamente collegato all’attualità c’è il modello a cinque fattori che può servire a rispondere ad esempio a domande, che troppo pochi si fanno, tipo “per quale motivo Trump ha consensi tra latinos e neri?” come si chiedeva saggiamente Luisa commentando le fatidiche elezioni USA. Questo modello considera la personalità attraverso una serie di punteggi su cinque scale: openness, conscientiousness, extroversion, agreeableness e neuroticism e ci soccorre nel risolvere l’apparente enigma scaturito dai risultati elettorali statunitensi.

The five-factor model helped me understand people in a new way. Pollsters often talk about monolithic groups of voters – women voters, working-class voters, gay voters. Although certainly important factors to people’s identities and experiences, there is no such thing as a woman voter or a Latino voter or any of these other labels. Think about it: if you randomly grab a hundred women off the street, will they all be the same person? What about a hundred African Americans? Are they all the same? Can we really say that these people are clones by virtue of their skin color and vaginas? They all have different experiences, struggles, and dreams.

Wylie racconta i primi esperimenti di successo svolti sulla pelle di popolazioni “irrilevanti” come gli abitanti di Trinidad, definendo queste pratiche come colonialismo digitale.

But we did do it. The Trinidad project was the first time I got sucked into a situation that was grossly unethical, and, frankly, it triggered in me a state of denial. As I watched those livestreams, I didn’t allow myself to actually picture the human prey, people who had no idea that their private behavior was dilighting sinister audiences half a world away. The Trinidad project was my first taste of this new wave of digital colonialism.

A questo punto l’autore racconta il primo incontro con Steve Bannon, all’epoca poco conosciuto ma sicuramente non una persona con cui si pensa potesse avere affinità e invece sappiamo oggi che è andata molto diversamente: “what I didn’t know that day was that Bannon wanted to fight a cultural war, and so he had come to the people who specialized in informational weapons to help him build his arsenal”.

Sono interessanti e molto istruttive per chi non le conoscesse, le informazioni sui bias cognitivi, ad esempio quello denominato availability heuristic, per cui si confonde la facilità nel reperire determinate notizie con la frequenza o la loro probabilità: ciò avviene per i crimini violenti, attenzionati particolarmente soprattutto da alcuni media, seguendo i quali si può avere la sensazione che tali crimini siano in aumento mentrè sono in calo costante dall’ultimo quarto di secolo. Un altro bias è l’affect heuristic quando si usano scorciatoie mentali, influenzati dalle emozioni: la rabbia spesso impedisce di compiere le scelte più razionali e sicure. Un’altra logica fallace ma molto diffusa è la credenza che il mondo sia un gioco a somma zero, in cui ci sono vincitori e vinti per cui se vengono tutelati determinati gruppi altri pensano di essere trascurati: questo è il motivo per cui molti non sembrano interessati a difendere le minoranze e accade anche che si possa essere restii a difendere diritti sacrosanti perché non ci coinvolgono in prima persona.

Dalla Brexit in poi

The world did not know it yet, but Brexit was a crime scene. Britain was the first victim of an operation Bannon had set in motion years before. The so-called “patriots” of the Brexit movement, with their loud calls to rescue British law and sovereignty from the grips of the faceless European Union, decided to win a vote by mocking those very laws. And to do so, they deployed a web of companies associated with Cambridge Analytica in foreign juriscìdictions, away from the scrutiny of the agencies charged with protecting the integrity of our democracies. Foreshadowing what was to come in America, a clear pattern emerged during the Brexit debacle, where previously unknown foreign entities began exerting influence on domestic elections by deploying large data sets of unexplained origins. And with social media companies not performing any checks on the advertising campaigns spreading throughout their platforms, where was no one standing guard to stop hostile entities seeking to show chaos and disrupt our democracies.

Questa lunga citazione rende l’idea meglio di quello che potrei parafrasare io, per questo ho scelto di riportarla per intero; e aiuta a vedere in prospettiva cosa è accaduto non molto tempo dopo negli Stati Uniti. Una domanda però sorge a questo punto, e riguarda la Russia: “Was Cambridge Analytica involved in Russian disinformation efforts in the United States? No one can say for sure, and there’s no single “smoking gun” proving that Cambridge Analytica was the culprit, aided and abetted by Russia”. Ci sono comunque, ci dice l’autore, molti collegamenti tra Cambridge Analyitica e la Russia. Wylie, contattato dalla giornalista del Guardian Carole Cadwalladr, dopo un primo momento di paura e di diffidenza inizia il suo percorso di whistleblower che coinvolge in breve altre persone e altri media, e in particolare il New York Times e Channel 4. Quasi tutte le attenzioni si sono concentrate sulle attività europee e statunitensi di Cambridge Analytica e solo in qualche raro caso si è avuta la dovuta attenzione verso le numerose responsabilità dell’azienda in Africa (Kenya, Ghana, Nigeria…), praticamente al motto di “Shit happens. It’s Africa, after all”.

Alla fine comunque, né in Gran Bretagna né negli Stati Uniti, le denunce sulle condotte illegali di Cambridge Analytica hanno prodotto conseguenze:

The regulators found that not only did Facebook fail to protect users’ privacy, the company misled the public and journalists by issuing false statements that it had seen no evidence of wrongdoid when  it in fact had.

Qualche conseguenza solo a livello personale, per l’autore stesso:

If anything, it has made me even more radical. I used to believe that the system we have broadly work. I used to think that there was someone waiting with a plan who could solve a problem like Cambridge Analytica. I was wrong. Our system is broken, our laws don’t work, our regulators are weak, our governments don’t understand what’s happening, and our technology is usurping our democracy.

Alla fine del libro, raccontando come sia cambiata la sua quotidianità, l’autore butta giù anche qualche idea su come superare questa fase, per andare oltre il principio del consenso e rendere le piattaforme effettivamente responsabili e gli utenti più liberi. Possono essere misure anche radicali, ma non mettono in questione le vere basi del sistema capitalistico, e d’altronde provengono da un pensiero comunque liberal, per quanto apparentemente relativo. Ci sono comunque anche sul finire intuizioni importanti sulle piattaforme: “And yet, they also implicitly believe that their right to profit from these systems outweighs the social costs others bear”. Ad ogni modo il testo resta una miniera di spunti e informazioni che tutti dovrebbero conoscere *prima* di accedere alle piattaforme e ai social media.

 

Immuni ma non alla sorveglianza

Leggo per quanto riguarda la fantomatica app Immuni che dovrebbe tracciare la popolazione e segnalare se si hanno avuto contatti con soggetti contagiati, annunciata in maniera roboante come strategia “volontaria”, che si ipotizzano ulteriori limiti alla mobilità per chi decida di non utilizzarla. Ulteriori perché anche utilizzando l’app (o in alternativa un braccialetto!) saranno previste delle restrizioni alla mobilità. Chi si oppone tra le altre cose parla dell’obbligo di uso dello smartphone (o del credito per le connessioni mobili, ché in Italia le numerose offerte sono tutt’altro che economiche) ma ancora prima io chiederei quali altri strumenti si pensa di affiancare all’app, perché da sola non potrebbe mai essere efficace. I tamponi? Riusciremo a farli in maniera estesa? Saremo in grado di potenziare la sanità pubblica nel frattempo?

Stefania Maurizi (@SMaurizi su Twitter), giornalista investigativa da poco “scappata” da Repubblica, che ha lavorato sui Wikileaks e sui file di Snowden e che quindi ha una conoscenza professionale e approfondita sulle questioni della sorveglianza digitale, non smette di lanciare l’allarme sul tema chiedendo che se ne discuta pubblicamente. Neanche dopo l’11 settembre, afferma, si è arrivati ad uno scenario simile, una sorveglianza di massa che integra i dati sulla salute, da decenni ormai definiti dati sensibili e quindi maggiormente tutelati e dati di localizzazione. Ci sono ovviamente enormi interessi economici e di intelligence intorno a questo settore. Il dibattito pubblico sul tema invece è tanto necessario quanto assente, soprattutto in Italia direi, dove temo che una discreta maggioranza non veda l’ora di scaricare sul proprio telefono un’app di tracciamento sul cui funzionamento e sulle cui garanzie di sicurezza nessuno saprebbe dare risposte certe.

Maurizi

Il problema è dunque a monte, ed è connesso all’assenza generale di un dibattito sul capitalismo della sorveglianza e sull’entusiastico ed incosciente utilizzo dei social media e delle piattaforme digitali in assenza di una minima alfabetizzazione informatica che andrebbe invece garantita a tutti. Nessuno nega che la questione del Covid-19 sia grave ed urgente, mentre leggo che si fanno pericolosi paralleli coi No Vax (really?) chiamando No Trax chi si permette di fare domande o mettere in discussione il percorso che si va tracciando (mi perdonerete il gioco di parole). Semplicemente non tutte le soluzioni sono uguali, e se una non vale l’altra, allora occorre valutare tempestivamente e a tutto tondo le conseguenze di medio e lungo termine delle scelte che si vogliono effettuare. Dire che non è questo il momento di far polemica sembra la mossa dello struzzo, perché un dopo, se e quando arriverà sarà tardi per tornare indietro sui passi fatti.

Un esempio calzante e che riguarda da vicino quasi tutte le famiglie (basta avere un figlio in età scolare e/o essere docenti) è quello della didattica a distanza, promossa in fretta e furia, senza la preparazione tecnica, umana, professionale, e ancor meno strutturale necessaria, e quindi improvvisata e lasciata alla buona volontà e, occorre dirlo, a tantissimo lavoro supplementare di un comparto, quello educativo, ormai storicamente bistrattato. I risultati parziali sono sotto gli occhi dei molti che vedono e vogliono vedere e riflettono innanzitutto le enormi differenze di classe. In tutto ciò, tranne poche voci fuori dal coro, la retorica dominante elogia la novità e ne auspica il mantenimento, tacendo evidentemente delle enormi difficoltà cui si sta andando incontro e che si rifletteranno in maniera pesante a settembre, sempre che si torni davvero sui banchi di scuola. Questo avviene inoltre facendo affidamento esclusivo a piattaforme digitali che sono i principali colossi della rete, che hanno poco a cuore la tutela della privacy e della sicurezza personale e in più, acquisiscono tramite la scuola per la stragrande maggioranza dati di minori, che andrebbero particolarmente tutelati:

Sono un docente ingenuo, non so come fare DAD, didattica a distanza. Vado sul sito del ministero dell’istruzione e vedo il link: «Didattica a distanza». Clicco. Ci sono due menù: il primo è «Esperienze per la didattica a distanza», l’altro «piattaforme».

Sotto questo secondo punto sono elencate tre piattaforme: Google, Microsoft, Amazon. Tre enti privati tra i più potenti al mondo schiaffati in bella mostra (da Giap, Brodo di DAD. Appunti per non farsi bollire a scuola durante e dopo l’emergenza coronavirus).

Infine, per essere chiari, quando parliamo di sicurezza in ambiente digitale ed in particolare nel contesto di applicazioni che gestiscono dati personali e sensibili, temiamo esattamente questo:

Proposed government coronavirus tracking app falls at the first hurdle due to data breach

The source code of a proposed app for tracing COVID-19 exposed user data after being published online.

A mobile application proposed to the government of the Netherlands as a means to track COVID-19 has already fallen short of acceptable security standards by leaking user data.

The app, Covid19 Alert, was one of seven applications presented to the Ministry of Health, Welfare, and Sport, as reported by RTL Nieuws.

The shortlisted mobile app’s source code was published online over the weekend for scrutiny as the government decides which solution to back. It was not long before developers realized that the source files contained user data — originating from another application.

According to the publication, the app contained close to 200 full names, email addresses, and hashed user passwords stored in a database from another project linked to an Immotef developer.

The source code was quickly pulled, but the damage was already done, with one developer criticizing the leak as “amateurish.” (continua qui).

Se l’obiezione è “tanto siamo tutti già tracciati” è sbagliata dal principio. Primo perché lo siamo ad un livello di scala ampio ma differente, molto ridotto rispetto a quello che ci aspetta. Secondo perché formalmente siamo liberi di non farci tracciare, se ciò accade è perché lo vogliamo o perché non ci rendiamo conto delle implicazioni che comporta e se ne fossimo a conoscenza interromperemmo questo processo. In ogni caso, è necessario conoscere bene come funzionano i dispositivi che utilizziamo e scegliere consapevolmente se continuare a farlo o cercare alternative. Per alcune cose probabilmente niente è meglio di qualcos’altro; in particolare se questi si basano su gamification e inducono FOMO, questo è un segnale che ne indica la pericolosità intrinseca. Se non conoscete bene queste tematiche e vorreste approfondire, in primo luogo suggerirei di leggere il libro di Shoshana Zuboff, Il capitalismo della sorveglianza, di cui parlo qui e di vedere la puntata di Presa diretta sull’argomento per farsi un’idea.

Il capitalismo della sorveglianza

Some resist the future, some refuse the past

Either way, it’s messed up if we can’t unplug the fact (Ludens, BMTH)

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La lettura de Il capitalismo della sorveglianza, di Shoshana Zuboff, richiede sicuramente tempo non solo per la lunghezza del testo, ma soprattutto per riuscire a metabolizzare la quantità di informazioni e la loro densità. Si tratta di un testo imprescindibile, oserei dire fondamentale, che dovrebbe essere citato, studiato e considerato punto di riferimento come e più de Il capitalismo nel XXI secolo di Thomas Piketty, il quale sconta evidenti limiti nel riformismo che parte da un’analisi incompleta e conseguentemente nelle soluzioni che propone, ma questo è un altro discorso, chissà se qualche volta mi deciderò a parlarne con metodo. Ritorniamo al testo della Zuboff; nel leggerlo ho sottolineato parecchio e spero di poter rendere a chi mi leggerà l’importanza di questo lavoro.

Cos’è il capitalismo della sorveglianza?

Secondo l’autrice pioniere di questa nuova maschera del capitalismo sono Google e Facebook, le quali per prime scoprono l’importanza dei dati, non semplicemente di quelli forniti dagli utenti ma soprattutto di tutto ciò che ruota intorno ad essi. Apparentemente entrambe le big companies rendono servizi gratuiti, eppure sono tra le società che guadagnano di più al mondo, e i loro fondatori sono tra i miliardari più ricchi. Com’è possibile ciò? Evidentemente nulla è gratis, ma in realtà non è neanche come più volte ci siamo sentiti dire: siamo noi il prodotto. No. la realtà dei fatti è che noi siamo semplicemente lo strumento attraverso cui queste società (e Google e Facebook sono solo le prime in ordine di tempo, non le uniche) mettono a profitto la nostra intera esistenza. Per capirlo meglio andiamo al testo (ricorrerò frequentemente alla citazione diretta per motivi di chiarezza di esposizione e fedeltà ai concetti che voglio rendere): “gli utenti non sono prodotti, bensì le fonti della materia prima. (…) gli anomali prodotti del capitalismo della sorveglianza riescono nell’impresa di derivare dal nostro comportamento pur rimanendo al tempo stesso indifferenti ad esso”. Quello che genera profitti, una mole incredibile di profitti, non è ciò che l’utente inserisce in rete, ma il suo surplus comportamentale:

Gli scienziati poi chiariscono che hanno intenzione – e che le loro invenzioni glielo consentono – di aggirare gli attriti insiti nel diritto degli utenti a decidere. I metodi registrati da Google consentono di sorvegliare, catturare, espandere, costruire e reclamare surplus comportamentale, inclusi i dati intenzionalmente non condivisi dagli utenti. Gli utenti recalcitranti non ostacoleranno l’espropriazione dei dati. Nessun limite morale, legale o sociale intralcerà la ricerca, la sottrazione e l’analisi del comportamento altrui con scopi commerciali.

Fermo restando che quotidianamente diamo il consenso alle lunghissime e spesso incomprensibili clausole sulla privacy senza neanche leggerle, non è rifiutandole che ci potremo tirare fuori. Per come si è costituito questo sistema, e per gli ostacoli che NON ha incontrato nel corso degli anni, a partire da una sistema normativo inadeguato anche solo a comprendere cosa stesse accadendo, non c’è modo di rifiutarsi e restarsene fuori. Basti pensare che Facebook raccoglie i dati anche dei non iscritti alla piattaforma, per fare un esempio banale. Per non dire che tramite l’acquisizione di Whatsapp ha l’accesso alle nostre rubriche telefoniche e a qualsiasi dato presente nei nostri smartphone.

That a world covered in cables was never wired to last

So don’t act so surprised when the program starts to crash

È importante tenere presente che in nessun modo si tratta di demonizzare la tecnologia in sè:

il digitale può assumere molte forme, a seconda delle logiche sociali ed economiche che lo animano. È il capitalismo che impone un prezzo fatto di sottomissione e impotenza, non la tecnologia. È vitale ricordare che il capitalismo della sorveglianza è una logica in azione, non una tecnologia, perché i capitalisti vogliono farti credere che le loro pratiche siano insite nelle tecnologie che utilizzano. (…) Le tecnologie sono sempre dei mezzi al servizio dell’economia, e non dei fini: nell’epoca moderna, il Dna della tecnologia è segnato in partenza da quello che il sociologo Max Weber chiama “orientamento economico”.

In termini marxiani si afferma ancora una volta il dominio della struttura sulla sovrastruttura. Il libro fa l’esempio di almeno due diverse innovazioni tecnologiche create con scopi non commerciali, anzi ideate per essere al servizio dei singoli e delle comunità e che invece all’interno del sistema capitalista hanno in breve tempo perso la loro “missione” originaria: il primo era il progetto Aware Home, pensato per rendere la casa intelligente per gli utenti che la abitano, un progetto ingenuamente ideato per andare incontro alle esigenze personali degli abitanti di una casa, a differenza di come si è trasformato nella realtà, un ulteriore mezzo per trasferire e vendere informazioni a terzi; il secondo esempio è quello dell’affective computing ideato da Picard, che pensava di aiutare le persone attraverso delle macchine intelligenti che potessero comprendere le emozioni consapevoli e inconsapevoli e renderle codificabili; “Picard non aveva previsto le forze del mercato in grado di trasformare la renderizzazione delle emozioni in surplus sfruttabile con fini di lucro: dei mezzi per i fini di altre persone”. In entrambi i casi si immaginavano usi personali e privati: “non è pertanto una questione di dispositivi; è “l’orientamento economico” del quale parlava Max Weber, a essere determinato dal capitalismo della sorveglianza”.

L’autrice mantiene saldamente un approccio materialista che non posso che apprezzare, insieme al background sociologico di tutto rispetto: oltre Weber del testo citato sopra, lungo il testo ho ritrovato Polanyi, stella polare della sociologia economica, oltre a Braudel e Bauman. E a questo proposito segnalo il seguente passaggio che permette di introdurre una questione dirimente:

Il filosofo sociale Zygmunt Bauman ha scritto che la più profonda contraddizione del nostro tempo è “il gap sempre più ampio tra il diritto all’affermazione di sè stessi e la capacità di controllare le variabili sociali che la renderebbero possibile. È da quel terribile gap che provengono gli effluvi più velenosi che oggi contaminano le vite dei singoli individui”.

In buona sostanza c’è uno stridente contrasto tra la società iperindividualizzata e la crescente impotenza dei singoli ad autoaffermarsi. La società che inneggia alla meritocrazia, un concetto quanto meno discutibile, si dimostra sempre più incapace di far emergere le singole individualità. Come spiega meglio la Zuboff:

Descrivo la “collisione” tra i processi secolari di individualizzazione che danno forma alla nostra esperienza di individui autodeterminati e l’impervio habitat sociale prodotto da decenni di regime economico neoliberale che schiaccia quotidianamente la nostra autostima e il nostro bisogno di autodeterminarci. Il dolore e la frustrazione derivanti da tale contraddizione sono le condizioni che ci hanno spinto a sbandare verso internet per il nostro sostentamento, e accettare il drastico do ut des del capitalismo della sorveglianza.

And I don’t feel secure no more

Unless I’m being followed

And the only way to hide myself

Is to give ‘em one hell of a show

Com’è successo?

Una domanda potrebbe sorgere, e l’autrice prova a rispondere: ma com’è potuto accadere che il capitalismo della sorveglianza diventasse realtà senza nessuna resistenza, anzi senza la presa di coscienza di cosa stesse accadendo?

Sotto la guida di Google, il capitalismo della sorveglianza ha allargato notevolmente le dinamiche di mercato, imparando a espropriare l’esperienza umana e a trasformarla in previsioni comportamentali. Google e l’ancora più vasto progetto di sorveglianza sono stati generati, protetti e nutriti dalle specifiche condizioni storiche di un’epoca – le esigenze della seconda modernità, l’eredità neoliberista, la realpolitik dell’eccezionalismo della sorveglianza – oltre che dalla loro volontà di erigere delle fortezze per proteggere la propria incetta di materie prime dall’analisi altrui attraverso l’influenza politica e culturale.

Tra i meccanismi utilizzati dai capitalisti della sorveglianza per vincere facilmente le resistenze ed affermarsi quasi senza “combattere” c’è “l’invasione tramite la dichiarazione“: “la mancanza di precedenti ci ha lasciato disarmati e incantati”. Per comprendere questo passaggio occorre tornare un attimo indietro, esattamente alla conquista dell’America. Molti si sono chiesti come siano stati possibili la conquista e il conseguente genocidio dei popoli americani da parte di relativamente pochi colonizzatori. In pratica questo è stato spiegato in buona parte dall’assoluta estraneità della realtà e dei mezzi dei conquistatori: i nativi non capivano chi si trovavano davanti, mentre da parte europea c’era tutto fuorché ingenuità, perché approfittarono sapientemente di quel terribile gap per prevalere senza alcuno scrupolo. Lo strumento del Requerimiento soprattutto serviva allo scopo: si trattava di una dichiarazione in cui si affermavano le modalità di conquista, partendo dalla storia dell’umanità e passando per la nascita e l’affermazione del Cattolicesimo. Attraverso il potere spirituale e temporale conferito dalla Chiesa si proclamava la sottomissione dei nuovi popoli a ad esso. Il problema principale di questo strumento era la sua pura formalità, che tra l’altro neanche sempre veniva rispettata, mentre nei fatti i popoli non comprendevano affatto quanto veniva loro detto e si trovavano in una condizione di subalternità tale da non rendersene neanche conto. Questa storia apparentemente lontana si è ripetuta negli anni scorsi, ovviamente in forme diverse e senza nessun conseguente genocidio, quando Google ha appreso

l’arte dell’invasione e della dichiarazione, prendendosi quel che voleva e stabilendo che gli apparteneva. L’azienda ha rivendicato il proprio diritto di aggirare la nostra consapevolezza, di prendere la nostra esperienza e trasformarla in dati, di ritenersi proprietaria dell’uso e della destinazione di quei dati, di elaborare tattiche e strategie per tenerci all’oscuro delle sue pratiche e di insistere perché persistesse la mancanza di leggi necessaria a tali operazioni. Queste dichiarazioni hanno istituzionalizzato il capitalismo della sorveglianza come forma di mercato.

Tra i caratteri più peculiari che hanno permesso che tutto ciò accadesse è la velocità del nuovo sistema: “i movimenti rapidi del capitalismo della sorveglianza non vengono colti dallo sguardo della democrazia e dalla nostra capacità di capire che cosa accade e considerarne le conseguenze”. Non è un caso che l’elaborazione teorica di questo sistema avviene quando è già fortemente istituzionalizzato, con un ritardo di una ventina d’anni dai suoi primi passi.

Alcuni concetti chiave

Uno dei concetti chiave del libro è lo shadow text: quello che noi condividiamo su internet, attraverso i social, oppure utilizzando i molteplici servizi di colossi come Google è un primo testo, il quale però lascia tracce, residui che sono più importanti di questo per i capitalisti della sorveglianza:

Sotto il regime del capitalismo della sorveglianza, però il primo testo non è più solo, ma lascia un’ombra alle sue spalle. Il primo testo, tanto apprezzabile, in realtà fornisce materie prime al secondo testo: il testo ombra. Tutto quel che offriamo al primo testo, non importa quanto irrilevante o effimero sia, diventa un bersaglio per l’estrazione del surplus. Questo surplus riempie le pagine del secondo testo, che è celato alla nostra vista: una “lettura riservata” per i capitalisti della sorveglianza.

Anche dopo lo scandalo di Cambridge Analytica del 2018, quando Facebook ha dichiarato che avrebbe reso disponibile per il download più dati personali, si riferiva sempre al primo testo: “questi dati non comprendono il surplus comportamentale, i prodotti predittivi e il destino di queste previsioni quando vengono usati per la modifica del comportamento, comprati e venduti. Quando scarichiamo le nostre “informazioni personali”, abbiamo accesso al proscenio, non al retroscena (…)”.

Quel che accade all’interno del capitalismo della sorveglianza è ben lontano dalle forme antiche e conosciute di sottomissione, non si tratta neanche di “imporre norme comportamentali come l’obbedienza e il conformismo”, ma piuttosto di “produrre un comportamento che in modo affidabile, definitivo e certo conduca ai risultati commerciali desiderati” .

How do I form a connection when we can’t even shake hands?

You’re like the phantom greeting me

We plot in the shadows, hang out in the gallows

Stuck in a loop for eternity

I livelli di ansia crescono al proseguire della lettura, e non potrebbe essere altrimenti: “Google e Amazon si sono già assicurati la competizione per il cruscotto della nostra auto, dove i loro sistemi controlleranno tutte le comunicazioni e le applicazioni”. D’altronde non potrebbe essere altrimenti quando si scopre che vengono prodotte “bottiglie smart di vodka” e “termometri rettali connessi a internet”. Se c’è una cosa che mi mette profondamente a disagio è pensare che quella che ingenuamente credevo potesse essere una comodità e un miglioramento della qualità della vita come i robot aspirapolvere è già programmato per raccogliere e inviare all’esterno dati privati sulla casa e non solo. D’altronde, pensando razionalmente ai caratteri intrinseci del capitalismo non potrebbe essere altrimenti finchè vi siamo immersi; e leggendo il libro mi sono ancora più convinta di quanto abbia fatto bene ad uscire da Facebook (che poi il passo successivo parrebbe dover essere fare l’eremita sull’Himalaya è un altro discorso, forse):

Facebook è diventata invece una delle più autorevoli e minacciose fonti di surplus comportamentale proveniente dall’abisso. Con una nuova generazione di strumenti di ricerca, ha imparato a depredare il vostro sé fino alle sue profondità più intime. Le nuove operazioni di rifornimento possono renderizzare come comportamento misurabile qualunque cosa: le sfumature della nostra personalità, il nostro senso del tempo, l’orientamento sessuale, l’intelligenza e i valori di altre caratteristiche personali. È l’immensa intelligenza delle macchine dell’azienda che trasforma questi dati in efficaci prodotti predittivi.

Non si tratta di esagerazioni o iperboli, stiamo parlando ad esempio di Cambridge Analytica, qualcosa che almeno apparentemente ha smosso le acque e generato indignazione generale:

si tratta delle capacità cresciute in quasi due decenni di incubazione del capitalismo della sorveglianza in uno spazio sregolato; pratiche che hanno suscitato scandalo, ma che nei fatti sono routine quotidiana nell’elaborazione dei metodi e degli obiettivi del capitalismo della sorveglianza, che si tratti di Facebook o di altre aziende. Cambridge Analytica ha semplicemente spostato la macchina dai soldi garantiti dal mercato dei comportamenti futuri alla sfera politica.

Do you know why the flowers never bloom?

Will you retry or let the pain resume?

I need a new leader, we need a new Luden

(A new Luden, new Luden, yeah)

Un altro dei elementi chiave presentati nel libro è la gamification, un concetto affascinante almeno quanto inquietante e che ha già prodotto una letteratura accademica diffusa e sostanziosa. La Zuboff spiega chiaramente il suo significato e le sue implicazioni all’interno del capitalismo della sorveglianza:

In pratica, il potere dei giochi di cambiare i comportamenti è stato strumentalizzato senza ritegno, con la diffusione della gamification in migliaia di situazioni nelle quali un’azienda non vuole fare altro che regolare, dirigere e condizionare il comportamento dei propri clienti o impiegati rivolgendolo verso i propri obiettivi. In genere questo significa importare alcune componenti, come i punti bonus e l’avanzamento di livello, per determinare comportamenti che tornano comodi agli interessi dell’azienda, con programmi che premiano la fedeltà dei clienti o la competizione per le vendite tra gli impiegati.

Si tratta di strumenti ormai largamente diffusi e di cui facciamo spesso esperienza come clienti ma effettivamente sono impiegati moltissimo anche a monte della catena di produzione come afferma correttamente l’autrice, per incentivare gli impiegati: un esempio lampante si riscontra nei meccanismi di gara e premialità fortemente presenti nei call center, ma non solo. E parlando di giochi un passaggio importantissimo per il potenziamento del capitalismo della sorveglianza è stato a la diffusione a livello mondiale del gioco Pokémon Go che ha generato una mania collettiva coinvolgendo milioni di persone e che ha permesso di interiorizzare in maniera inconsapevole alcuni degli aspetti più deleteri della sorveglianza, dalla geolocalizzazione massiccia all’intrusione in luoghi privati come le case, non troppo tempo fa considerati inviolabili, fino alla monetizzazione ottenuta da tutte quelle imprese che permettendo la presenza di Pokémon all’interno del loro perimetro hanno ottenuto accessi in massa da parte di clienti che probabilmente non sarebbero facilmente entrati, consentendo un ritorno economico eccezionale. Quello che preme sottolineare è che il cliente finale del gioco non è l’utente che vi partecipa con eccessiva leggerezza ma “le aziende che prendono parte al mercato dei comportamenti futuri stabilito e ospitato dall’azienda” (la Niantic, produttrice del gioco). Quando parlo di leggerezza da parte dei giocatori di Pokémon Go o di inconsapevolezza non mi riferisco ad un aspetto marginale, poiché come afferma la Zuboff “la capacità dei capitalisti della sorveglianza di aggirare la nostra consapevolezza è una condizione essenziale per la produzione di conoscenza“. Il fatto di non avere alcun controllo formale è diretta conseguenza del nostro essere inessenziali al funzionamento del mercato: “in un futuro del genere, siamo esiliati dai nostri stessi comportamenti, ci viene negato l’accesso o la possibilità di controllare la conoscenza ricavata dalle nostre esperienze. Conoscenza, autorità e potere risiedono nel capitale della sorveglianza, per il quale siamo solo “risorse naturali umane”.

Nel futuro che il capitalismo della sorveglianza sta preparando per noi, la mia e le vostre volontà costituiscono una minaccia per il flusso di denaro che proviene dalla sorveglianza. Il suo scopo non è quello di distruggerci, ma semplicemente quello di scrivere la nostra storia per guadagnare soldi. Già in passato sono state ipotizzate cose simili, ma solo oggi sono possibili. Già in passato sono state sconfitte cose simili, ma solo oggi hanno potuto radicarsi. Siamo intrappolati senza consapevolezza, privi di alternative per sfuggire, resistere o proteggerci.

So come outside, it’s time to see the tide

It’s out of sight, but never out of mind

I need a new leader, we need a new Luden

(A new Luden, new Luden, yeah)

Aspetti vincenti del capitalismo della sorveglianza non sono solo la velocità, i modi subdoli o la sua eccezionalità rispetto al contesto storico in cui si è costituito , c’è sicuramente invece una componente di comodità e “servizio” apparentemente gratuito che affascina e irretisce, illudendo molte persone della necessità di essere parte di questo immane cambiamento:

in questo nuovo regime, le nostre vite si svolgono in un contesto morale di oggettificazione. Il Grande Altro può imitare l’intimità per mezzo dell’instancabile devozione dell’Unica Voce – la ciarliera Alexa di Amazon, le informazioni instancabili e i promemoria del Google Assistant -, ma non commettiamo l’errore di scambiare questi suoni avvolgenti per qualcosa di diverso dallo sfruttamento dei nostri bisogni.

Come già detto sopra, non si tratta di essere diventati il prodotto del capitalismo:

dimenticatevi il cliché secondo il quale “se qualcosa è gratis, il prodotto sei tu”: noi non siamo il prodotto, siamo le carcasse abbandonate. Il prodotto deriva dal surplus strappato alle nostre vite.

Dal punto di vista della personalità così come viene influenzata dalle maggiori occasioni di confronto sociale si riscontra la condizione psicologica FOMO (Fear Of Missing Out), “una forma di ansia sociale definita dalla “sensazione sgradevole, o perfino straziante, che i nostri simili stiano facendo qualcosa di migliore di noi, e possiedano più cose o conoscenze”. Suona familiare? I ricercatori hanno associato questa condizione all’uso compulsivo di Facebook, e oserei dire che si tratta di una delle condizioni più diffuse tra giovani e meno giovani dei nostri tempi, che anche personalmente ho vissuto nella mia esperienza e anche per lunghi periodi. È necessario rilevare quanto questa condizione sia collegata ad una vita insoddisfacente e non semplicemente insicura.

All’interno del capitalismo della sorveglianza la società si trasforma in sciame, mentre gli individui diventano meccanismi: questi sono i caratteri fondanti della società strumentalizzata, una società che non annulla affatto le divisioni di classe: “la vita nell’alveare produce nuove spaccature e forme di stratificazioni. Non si tratta più solo di regolare o subire le regole, ma anche di fare pressione o subirla”.

So di aver scritto già tanto, ma mi preme condividere tutti gli elementi che considero importanti, e sono davvero molteplici. Ad esempio un elenco di “affronti alla democrazia e alle sue istituzioni”:

l’esproprio non autorizzato dell’esperienza umana; il dirottamento della divisione dell’apprendimento nella società; l’indipendenza strutturale del capitalismo; l’imposizione della forma collettiva dell’alveare; l’ascesa del potere strumentalizzante e dell’indifferenza radicale alla base della sua logica dell’estrazione; la costruzione, la proprietà e la gestione dei mezzi di modifica del comportamento costituita dal Grande Altro; l’abrogazione dei diritti fondamentali al futuro e al santuario*; l’allontanamento dell’individuo in grado di autodeterminarsi dal cuore della vita democratica; l’annebbiamento psichico come merce di scambio con l’individuo in un do ut des illegittimo.

*per diritto al santuario l’autrice intende il bisogno di uno spazio che possa essere un rifugio inviolabile, diritto presente nelle società civilizzate fin dall’antichità.

Storicità e contingenza

Come sostiene l’autrice “il capitalismo della sorveglianza rappresenta una logica d’accumulazione senza precedenti definita da nuovi imperativi economici con meccaniche ed effetti non interpretabili dai modelli e dagli assunti esistenti”. Questo però non esclude la sua storicità, perché “è stato creato da uomini e donne che potrebbero controllarlo, ma che hanno semplicemente scelto di non farlo”. Così come non si tratta di una trasformazione che mette in soffitta i princìpi e gli assunti base del capitalismo, e infatti “ciò non significa che i vecchi imperativi – la compulsione alla massimizzazione del profitto con l’intensificazione dei mezzi di produzione, crescita e competizione – siano svaniti. Questi si trovano però a dover operare attraverso i nuovi obiettivi e meccanismi del capitalismo della sorveglianza”.

Soffermarsi sul carattere storico e “accidentale” del capitalismo della sorveglianza non è un semplice esercizio accademico perché implica una semplice ma grande verità, sottaciuta per ovvie ragioni. E ci incoraggia ad agire per resistere alla sua contingenza:

Non va bene che ogni nostro movimento, ogni emozione, parola e desiderio siano catalogati, manipolati e poi indirizzati verso un futuro già deciso per far guadagnare qualcun altro. “Si tratta di cose nuove” spiego. “Non hanno precedenti. Non dovreste darle per scontate, visto che non vanno bene.

Si tratta di una grande lezione, necessaria, che travalica i seppur pervasivi confini del capitalismo della sorveglianza per abbracciare la nostra intera esistenza di esseri sociali: il motore del cambiamento della storia è sempre passato da questa convinzione e così sarà per il futuro.

Alright, you call this a connection?

You call this a connection?

You call this a connection? Okay

You call this a connection?

Oh, give me a break

Oh, give me a break

Oh, give me a break (okay)

[AGGIORNAMENTO IMPORTANTE: questo post è molto letto ma resta incompleto senza il successivo post dedicato alla critica del testo di Evgeny Morozov, che inserito tra i commenti di rimando spesso sfugge mentre è essenziale. Consiglio quindi a tutti di leggerlo per avere un quadro più compiuto.

A che punto siamo, segnalazioni e consigli di lettura

Sono passati 11 giorni da quando ho iniziato a lavorare per cancellarmi da Facebook, come ho spiegato qui e qui. Siccome ancora non ho terminato, ho pensato di aggiornare per fare un po’ il punto della situazione e intanto segnalare ciò che ho letto in questi giorni e ritengo interessante sul tema. Nel mondo reale intanto ho iniziato a leggere Il capitalismo della sorveglianza di Shoshana Zuboff a cui già avevo accennato. Per quanto riguarda la cancellazione dei dati, sto procedendo senza più plugin esterni, tramite la gestione dei post. Si cancellano i post da me scritti, i link, e e i tag, che devo rimuovere a parte ma si può lavorare sempre in blocchi di 50 post e quindi si procede discretamente bene. Se ci lavorassi tutto il giorno avrei sicuramente terminato, ma ovviamente ho anche una vita da vivere, uno dei motivi tra l’altro per cui sto uscendo da lì, e quindi quando posso ci dedico un po’ di tempo. Al momento ho cancellato i post dal 2009, anno di iscrizione, al 2017 e sto lavorando al 2018. Il problema di questo metodo è che non si può agire sui mi piace dati alle pagine, quindi dovrò scegliere se farlo successivamente manualmente o lasciar perdere. Per quanto riguarda la cancellazione degli amici, ho provato manualmente ma il mio account ha alcune funzioni bloccate, non so se per i tentativi di uso di risorse esterne o per segnalazione di altri, cosa che dubito visto che posso postare tranquillamente, e a quanto pare mi impedisce solo di rimuovere gli amici.

Ma andiamo alle segnalazioni: a parte una *postilla* al doppio post dei Wu Ming che è stata pubblicata come post per comodità data la lunghezza e anche l’argomento, consiglio l’ottima lettura su Doppiozero, molto interessante anche se come fa notare Yamunin sul suo blog manca la parte sul “Che fare?”. Il post di Yamunin è interessante pur nella sua brevità anche perché da chiare definizioni di Gamification e FOMO, due concetti chiave da inquadrare nel discorso:

sia la Gamification (ovvero tutte le tecniche di marketing mutuate dai giochi affinché si torni compulsivamente e volontariamente a controllare la time line, ad esempio) che la FOMO (l’ansia di essere tagliati fuori) vanno a condizionare fortemente il nostro modo di vivere e di interagire con gli altri.

Necessaria anche nell’inquietudine che mette l’inchiesta del New York Times sulla pervasività della geolocalizzazione inserita in una miriade di app che abbiamo sul telefono. Da ultimo ho letto un importante e utilissimo Toot su Mastodon riguardante il “DeGoogle”, un movimento che si spera diventi dirompente e del quale vorrei essere parte, perché ritengo anch’io necessario al di là anche di questioni etiche e politiche, tirarsi fuori da questa monodipendenza con i rischi che comporta e che spiega bene Kyle Piira.

Ps. A proposito di Mastodon, che boccata d’ossigeno essere lì dentro piuttosto che altrove (Twitter o Facebook) dopo la dipartita del revisionista Giampaolo Pansa, lontana dai coccodrilli vili, tristi e inutilmente apologetici verso una figura che ha terribilmente contribuito ad infangare la memoria della Resistenza con operazioni commerciali/editoriali di dubbio gusto.  Visto che è giornata di segnalazioni, sul tema consiglio di leggere le parole del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki e Luca Casarotti per Jacobin Italia.