L’estremismo, malattia infantile del comunismo

estremismoLa rivoluzione viene realizzata in un momento di slancio eccezionale di straordinaria tensione di tutte le facoltà umane, viene realizzata dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di varie decine di milioni di uomini, spronati dalla più aspra lotta di classe.

L’analisi marxista ha il grande pregio di essere sempre attuale perché tutt’altro che dogmatica. Si fonda infatti sul materialismo dialettico che è alla base di tutti i classici del marxismo che anche per questo motivo si dimostrano ancora oggi strumenti preziosi per la preparazione politica: “La nostra teoria non è un dogma ma una guida per l’azione” dicevano già Marx ed Engels. Ritorno ai classici perché ho appena terminato L’estremismo, malattia infantile del comunismo, testo elaborato da Lenin alla vigilia del secondo congresso dell’’Internazionale. È bene ricordare innanzitutto a me stessa il contesto storico: la rivoluzione bolscevica aveva avuto successo nel 1917, il primo conflitto mondiale era terminato e i partiti operai crescevano un po’ dappertutto. Le questioni pratiche erano all’ordine del giorno e Lenin con questo testo volle mettere a disposizione dei compagni l’importante esperienza quindicennale del partito bolscevico, non per replicarla ciecamente ma per trarne gli insegnamenti essenziali.

“Pur passando dappertutto per una scuola sostanzialmente omogenea in cui si prepara alle sue vittorie sulla borghesia, il movimento operaio di ogni paese compie questo sviluppo a suo modo. E ancora: “Fino a che sussisteranno differenze nazionali e statali tra i popoli e i paesi (… ) l’unità della tattica internazionale del movimento operaio comunista di tutti i paesi esige non l’eliminazione delle diversità, non la soppressione delle differenze nazionali (… ), ma un’applicazione dei princìpi fondamentali del comunismo (… ) tale che li modifichi correttamente nei particolari, li adatti giustamente o li adegui alle differenze nazionali o nazionali-statali”.

Lenin espone dunque con estrema chiarezza alcune lezioni tratte dalla rivoluzione bolscevica – che dopo ormai cento anni sono ancora tremendamente attuali. In polemica con coloro che criticavano il parlamentarismo per principio Lenin spiega che in determinate circostanze partecipare alle elezioni è utile alla causa della rivoluzione come mezzo per far progredire la coscienza delle masse e diffondere i princìpi comunisti. Forme illegali e forme legali devono essere combinate in base alle necessità e ricorda inoltre il fatto che i bolscevichi parteciparono al parlamento più reazionario che c’era perché in quel momento era necessario. “Negare in linea di principio i compromessi, negare in linea generale che i compromessi di qualsiasi natura sono ammissibili, è una cosa puerile, che è persino difficile prendere sul serio”. Ovviamente Lenin specifica che non sono tutti uguali, ci sono compromessi inammissibili e sono quelli in cui si esprimono l’opportunismo e il tradimento.

Ma chi voglia escogitare per gli operai una ricetta che offra soluzioni già pronte per tutti i casi della vita o promette che nell’azione politica del proletariato rivoluzionario non ci saranno mai difficoltà e situazioni intricate, chi voglia far questo sarà semplicemente un ciarlatano.

Lenin attacca i comunisti “di sinistra” – la cosiddetta “opposizione di principio” in Germania – e spiega che “essi presentano tutti i sintomi della ‘malattia infantile dell’estremismo”. Opposizione che arriva a negare il partito e la disciplina di partito, disarmando così il proletariato a vantaggio della borghesia. Si tratta di questioni affatto teoriche, ma che anzi discendono dall’esperienza pluriennale, e ancora in corso nel 1920, del partito bolscevico.

In Russia (…) stiamo ancora muovendo i primi passi sulla strada che dal capitalismo conduce al socialismo, cioè alla fase inferiore del comunismo. Le classi sono rimaste e rimarranno in vita ancora per anni, dappertutto, dopo la conquista del potere da parte del proletariato. (…) Sopprimere le classi non significa soltanto cacciare via i grandi proprietari fondiari e i capistalisti, – questo lo abbiamo fatto con relativa facilità, – ma significa anche eliminare i piccoli produttori di merci, che è impossibile cacciar via, che è impossibile schiacciare, con i quali bisogna accordarsi, che si possono (e si devono) trasformare, rieducare solo con un lavoro organizzativo molto lungo, molto lento e cauto. (…) Il partito politico del proletariato ha necessità del centralismo più severo e della massima disciplina interna per opporsi a questi difetti, per svolgere giustamente, con successo, vittoriosamente la funzione organizzativa (che è la sua funzione principale). La dittatura del proletariato è una lotta tenace, cruenta e incruenta, violenta e pacifica, militare ed economica, pedagogica e amministrativa, contro le forze e le tradizioni della vecchia società. La forza dell’abitudine di milioni e decine di milioni di uomini è la più terribile delle forze. Senza un partito di ferro, temprato nella lotta, senza un partito che goda della fiducia di tutti gli elementi onesti della classe, senza un partito che sappia interpretare lo stato d’animo delle masse e influire su di esso, è impossibile condurre a buon fine questa lotta. (…) Chi indebolisce, sia pur di poco, la disciplina ferrea del partito del proletariato (in particolare nel periodo della dittatura proletaria) aiuta di fatto la borghesia contro il proletariato.

La citazione è lunga ma rende l’idea del lavoro impegnativo del partito nelle prime fasi di costruzione dello stato operaio, prime fasi che durano anni. Lenin poi sottolinea come sia importante l’attività continua nei sindacati e in tutte quelle attività che coinvolgono i lavoratori – “bisogna lavorare assolutamente là dove sono le masse” -, oltre al ruolo essenziale dei soviet. Ci tengo poi a citare per esteso un’altra osservazione importante fatta da Lenin:

Possiamo (e dobbiamo) cominciare a costruire il socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente da noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. La cosa è senza dubbio molto “difficile”, ma ogni altro modo di affrontare il problema è così poco serio che non vale la pena di parlarne.

Riguardo il parlamento allo stesso modo, per quanto si possa considerare superato per la classe, finché non lo sarà per le masse va considerato l’obbligo di lavorare al suo interno.

Voi avete il dovere di chiamare pregiudizi i loro pregiudizi democratici borghesi e parlamentari. Ma nello stesso tempo avete il dovere di considerare con sobrietà lo stato reale della coscienza e della maturità di tutta la classe (e non soltanto della sua avanguardia comunista), di tutte le masse lavoratrici (e non solo degli elementi d’avanguardia).

Fino a che non siete in condizione di sciogliere il parlamento borghese e tutte le altre istituzioni reazionarie d’altro tipo, avete l’obbligo di lavorare all’interno di tali istituzioni appunto perché in esse si trovano ancora degli operai ingannati dai preti e sviati dal provincialismo: in caso contrario rischiate di essere dei semplici ciarlatani.

Ancora sui compromessi, Lenin spiega benissimo come sia importante utilizzarli sempre “allo scopo di elevare, e non di abbassare, il livello generale della coscienza proletaria, dello spirito rivoluzionario del proletariato, della sua capacità di lottare e di vincere”.

Per la rivoluzione non basta che le masse sfruttate e oppresse siano coscienti dell’impossibilità di continuare a vivere come per il passato ed esigano dei cambiamenti; per la rivoluzione è necessario che gli sfruttatori non possano più vivere e governare come per il passato. Soltanto quando gli “strati inferiori” non vogliono più il passato e gli “strati superiori” non possono più vivere come in passato, la rivoluzione può vincere.

La storia, e in particolare la storia delle rivoluzioni, ci dice ancora Lenin, sono ben più ricche, articolate e complesse di quanto ci si possa immaginare. Dalla premessa citata ad inizio del post Lenin trae due conclusioni pratiche molto importanti: “la prima è che la classe rivoluzionaria, per assolvere il suo compito, deve sapersi impadronire di tutte le forme e di tutti i lati dell’attività sociale, senza eccezione alcuna (…); la seconda conclusione è che la classe rivoluzionaria deve essere pronta a sostituire nel modo più rapido e inatteso una forma di attività con l’altra”.

Quello che è necessario fare per i comunisti europei e americani, è che “risveglino dappertutto il pensiero, attraggano le masse, prendano in parola la borghesia, utilizzino l’apparato da essa creato, le elezioni da essa indette, gli appelli da essa rivolti a tutto il popolo, facciano conoscere alle masse popolari il bolscevismo, come non si è mai riusciti a fare se non in periodio elettorale”. Le condizioni storiche per il rovesciamento del capitalismo si possono presentare senza preavviso, per questo occorre essere pronti.

In appendice al testo si trova anche la Tesi sulla tattica del Comintern (5 dicembre 1922) che sviluppa ulteriormente il tema del fronte unico. Leggere la tesi è importante anche perché è possibile apprezzare l’accurata analisi sul declino del capitalismo e l’inquadramento della situazione politica internazionale. Inoltre il paragrafo sull’offensiva capitalista potrebbe benissimo essere stato scritto oggi.

L’offensiva capitalista internazionale sistematicamente organizzata contro tutte le conquiste della classe operaia ha spazzato il mondo come un uragano. Ovunque il capitale riorganizzato abbassa senza pietà i salari reali, allunga la giornata lavorativa, riduce i modesti diritti della classe operaia nelle fabbriche e, nei paesi con una moneta svalutata, costringe i lavoratori impoveriti a pagare il disastro economico causato dal deprezzamento della moneta, ecc. L’offensiva capitalista (…) costringe ovunque la classe operaia a difendersi. (…) ma la stessa lotta sta creando fra moltitudini di lavoratori in precedenza politicamente arretrati un odio implacabile contro i capitalisti e il potere statale che li protegge.

Anche l’analisi sul fascismo si è rivelata lungimirante nel suo evidenziare come le “guardie bianche” siano uno strumento al servizio della borghesia nel momento in cui la democrazia non garantisce più loro un saldo potere, e anche per combattere direttamente il proletariato insorgente. La tesi ribadisce quindi la necessità di ricorrere alla tattica del fronte unico seguendo lo slogan del governo operaio, possibile solo se “sorge dalla lotta delle masse ed è appoggiato da organizzazioni operaie combattive”.

I testi di coloro che hanno fatto la rivoluzione, mi riferisco in particolare a Lenin e Trotskij, sono una miniera di analisi e consigli pratici imprescindibili per coloro che vogliono impegnarsi nella costruzione di un’organizzazione rivoluzionaria. Sono molto istruttivi anche dal punto di vista storico, e sono chiari e del tutto accessibili, perché come ci insegnano proprio i maestri della rivoluzione, non si tratta di teorie lontane o sofisticate, ma della prassi rivoluzionaria che va acquisita imparando dal passato oltre che agendo nel presente.

I dati Oxfam e il migliore dei mondi possibili

Time to care – Aver cura di noi” è il nuovo rapporto sulle diseguaglianze sociali ed economiche pubblicato due giorni fa da Oxfam, alla vigilia del Forum economico mondiale di Davos iniziato ieri. La notizia è che le disuguaglianze crescono, e non dovrebbe stupire, Come riporta il Sole 24 ore:

A livello mondiale, la ricchezza globale, in crescita tra giugno 2018 e giugno 2019, resta fortemente concentrata al vertice della piramide distributiva: l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva a metà 2019 più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone, afferma il rapporto «Time to care» di Oxfam.
Ribaltando la prospettiva, la quota di ricchezza della metà più povera dell’umanità – circa 3,8 miliardi di persone – non sfiorava nemmeno l’1%. Nel mondo 2.153 miliardari detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale. Il patrimonio delle 22 persone più facoltose era superiore alla ricchezza di tutte le donne africane.

Il rapporto quest’anno si concentra sul lavoro domestico e di cura, sottopagato o non retribuito, che grava soprattutto sulle donne:

A livello globale le donne impiegano 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non retribuito ogni giorno, un contributo all’economia globale che vale almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno, tre volte il valore del mercato globale di beni e servizi tecnologici. Nel mondo – sottolinea ancora il rapporto Oxfam – il 42% delle donne di fatto non può lavorare perché deve farsi carico della cura di familiari come anziani, bambini, disabili; solo il 6% degli uomini si trova nella medesima situazione.

Nel rapporto si legge che questo capitalismo è “sessista e sfruttatore“, come sottolinea Roberto Ciccarelli sul manifesto: “il dominio di classe e quello patriarcale sono fondati sullo sfruttamento del lavoro di cura non retribuito delle donne”. E ancora: ” La situazione può essere descritta in termini marxiani, oggi diffusi anche nelle analisi del lavoro di cura: il lavoro di cura è essenziale alla creazione del valore, ma la forza lavoro che lo produce è invisibile. Inoltre le vite e gli stili di vita dei super-ricchi dipendono dalla sua attività”.

La critica del sistema di produzione è evidente e sottolineata da Ciccarelli nella conclusione del suo articolo:

«UN MILIARDARIO è un fallimento politico». Costruire una società più giusta, libera dalla povertà estrema, richiede la fine della ricchezza estrema, precisa Oxfam. Dal punto di vista di una critica dell’economia politica, il fallimento per una società coincide con il successo del Capitale. Restiamo nell’esigente attesa del tempo in cui «la parte di redentrice delle generazioni future», di cui parlava Walter Benjamin nelle sue tesi sulla filosofia della storia, sarà di nuovo interpretata dagli sfruttati e dagli oppressi. E sarà più facile immaginare la fine del capitalismo, e non quella del pianeta.

L’articolo del Sole 24 ore ovviamente non dice nulla su questo punto, ma quanto meno riconosce l’esistenza e l’inasprimento delle disuguaglianze economiche, cosa che non fanno Luciano Capone e Carlo Stagnaro che sul Foglio smentiscono l’analisi di Oxfam criticandone la metodologia e arrivando a dichiarare che il trend è esattamente opposto; insomma, non siamo stati mai meglio di così ed è merito del capitale. Non stupisce che l’articolo sia rilanciato sul sito dell’Istituto Bruno Leoni, il cui slogan è “idee per il libero mercato”. Ma vediamo nel dettaglio cosa dicono gli autori:

Per capire quanto sia infondato l’approccio scandalistico di questa associazione che ogni anno conquista i titoli dei principali media del mondo come una specie di Codacons globale, basterebbe riprendere gli slogan delle edizioni passate: nel 2017 si denunciava che solo 8 miliardari possedevano la stessa ricchezza di mezzo mondo (3,6 miliardi di persone); nel 2018, per pareggiare la ricchezza della metà più povera, di miliardari ce ne volevano 42; l’anno scorso 26. Quest’anno circa 2 mila. Quindi, secondo lo standard di Oxfam, le cose dovrebbero essere nettamente migliorate. Nonostante il “sistema economico difettoso e sessista”, le distanze tra i fortunati e i più miseri sembrano essersi accorciate: la ricchezza in mano ai miliardari è scesa da 9,2 mila miliardi di dollari nel 2018 a 8,7 nel 2019 (-6 per cento). Questo dato non viene enfatizzato, al contrario di quanto fatto in passato di fronte a cambiamenti di segno opposto.

Agli autori non passa proprio per la testa che se anche la ricchezza dei miliardari diminuisce (ma poveretti!) è sintomo che il capitalismo non riesce a contrastare ad esempio la caduta tendenziale del saggio di profitto, un dato scoperto da Karl Marx nel XIX secolo e ancora impossibile da smentire oggi. Tra l’altro a parte quel riferimento en passant al sessismo, ignora completamente l’approfondimento sul lavoro domestico e di cura. L’articolo si occupa inoltre di riprendere alcuni dati del Credit Suisse, fonte usata dalla stessa Oxfam, per dimostrare che le disuguaglianze globali sono in diminuzione e che l’argomento è serio e importante per cui va trattato seriamente, senza citare un economista che si occupi del tema. Anche se non ne condivido le soluzioni, basterebbe Piketty con l’immensa mole di dati che ha raccolto per smontare queste affermazioni. Ma soprattutto gli autori si prodigano nella difesa dell’esistente, uno sport diffuso e che garantisce l’assenza di analisi critica (enfasi mia, in questa citazione e nella prossima):

Questo non significa che povertà e diseguaglianze non siano questioni drammatiche – lo sono eccome. Ma se grazie alla globalizzazione e al capitalismo le cose sono migliorate, dovremmo interrogarci su come progredire ulteriormente rispetto ai trend in atto, anziché rottamarli negandone i risultati. Il risultato più eclatante di questi decenni – e forse della storia – è che la povertà globale si è ridotta drasticamente e con essa anche la diseguaglianza mondiale dei redditi e della ricchezza: e tutto questo mentre la popolazione mondiale cresceva, soprattutto nei paesi più poveri.

Vorrei anche capire se l’economia va bene o meno dal loro punto di vista, perché dicono che stiamo meglio, che i ricchi diminuiscono, le distanze pure, ma se i miliardari diminuiscono dovrebbe essere un nostro cruccio:

La sezione italiana di Oxfam dedica anche uno speciale alla diseguaglianza nel nostro paese. Per cominciare, si vede che anche in Italia da alcuni anni la quota della ricchezza del top 10 per cento è in continua riduzione: dal picco del 56 per cento nel 2016 siamo scesi al 53,6 per cento nel 2019. Oltretutto, si è perfino ridotto il numero di milionari, sceso da 1.516 del 2018 a 1.496 del 2019: forse una buona notizia per Oxfam, ma un pessimo segnale per chiunque abbia l’accortezza di rintracciarvi l’ennesimo indizio di un’economia stagnante.

Si dimenticano anche che è proprio la tendenza del capitalismo quella di concentrare la ricchezza nelle mani di sempre meno persone: il capitalismo sta bene, nonostante tutto, siamo noi a stare male. In conclusione secondo Capone e Stagnaro quella di Oxfam è un’operazione dai toni allarmistici, che ha successo mediatico perché alimenta paure e crea “l’impressione di un’emergenza”, quando invece viviamo nel migliore dei mondi possibili. Dev’essere vero, almeno per chi sta al vertice della piramide, mentre la base, composta da 3,8 miliardi di persone poverissime, con un reddito che non supera l’1% della ricchezza planetaria (sempre Roberto Ciccarelli sul Manifesto) potrebbe pensarla diversamente, ma guai a creare allarmi, rischiamo una rivoluzione!

Dubbi libici

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Venerdì 25 Febbraio 2011, 08:56 in Current Affairs, Scenari

Libia. Rivoluzione colorata o no?

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Debora Billi

Il blog è curato da Debora Billi, laureata in Lettere, giornalista, membro Aspo Italia.

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Libia, media, rivolte

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bandiera_libia_280.jpg Molti mi chiedono un’opinione su quello che accade in Libia. Rivoluzione colorata o no? Chi c’è dietro? Grazie per la stima, ma confesso che per una volta non riesco a formarmi un’idea precisa. Non sono in grado di costruire una teoria, io che ho sempre una teoria pronta per ogni cosa. Succede.

Allora ho pensato di farvi partecipi dei miei pensieri in libertà. Di quello che ho notato in particolare, di quello che ci propinano, della schizofrenia dei messaggi che arrivano. Così potrete non farvi un’opinione pure voi. E’ importante, certe volte, riuscire a non averla.

Ecco cosa ho sentito.

10 mila morti. Un po’ come i ventimila morti alle Torri Gemelle?

300 mila futuri sbarchi. Allo sbarco in Normandia parteciparono “solo” 150 mila soldati, fa notare Pietro Cambi, in tutto il Nordafrica non esistono neppure natanti a sufficienza.

Le fosse comuni. Ho detto già quel che dovevo.

– I miliziani che uccidono i feriti in ospedale e stuprano la gente “casa per casa”. Ricorda tanto la faccenda dei neonati strappati alle incubatrici dai soldati di Saddam: si scoprì che era stata “fabbricata” da un’agenzia di pubbliche relazioni.

I mercenari col cappello giallo. Ora, io non mi intendo di mercenari: ma vi pare possibile che vadano in giro a massacrare la gente indossando un cappello giallo canarino, in modo da farsi riconoscere a 500 metri… anche dalle telecamere?

– Le sparate di Gheddafi: Al Qaida mette la droga nello yogurt. Davvero, ha detto così. O almeno credo.

– I mercenari italiani aiutano i ribelli (Gheddafi).

– Gli aerei italiani aiutano Gheddafi (i giornali).

– Gheddafi, forse, può essere, usa le armi chimiche sulla sua istessa popolazione. Ma anche no.

– Al Qaida avrebbe stabilito un emirato islamico nel cuore del deserto, comandato da un terrorista transfugo di Guantanamo. Giuro, l’ha detto un ministro libico, non è un raccontino di Stefano Benni.

Il rais ha minacciato di chiudere i rubinetti del petrolio.

I ribelli hanno minacciato di chiudere i rubinetti del petrolio.

L’ENI (forse) chiude i rubinetti del petrolio. Ma insomma, chi è che controlla questi benedetti rubinetti del petrolio?

– Ieri sera, ad Anno Zero, hanno applaudito una bandiera monarchica. Quella del cirenaico re Idris. Stiamo diventando anche monarchici?

– Ieri sera, ad Anno Zero, hanno intervistato uno dei “coraggiosi giovani”, i rivoluzionari di Internet. Dove se ne sta? In Svizzera.

– Ieri sera, ad Anno Zero, Luttwak ha detto che i dittatori amici dell’America si distinguono perché la loro polizia non può sparare sulla folla e commettere efferatezze. Si, infatti, come anche Pinochet.

Ora sapete anche voi come mai, in tutto questo teatrino dell’assurdo, sia impossibile farsi un’opinione. A differenza di ciò che accadde in Egitto, Paese apertissimo e con milioni di contatti all’estero, oltre che con una vivacissima vita in rete, dalla Libia non esce quasi nulla di credibile. Esistono tre o quattro siti e blog come questo, ditemi voi se vi sembra una cosa messa su da attivisti o un sito commerciale di professionisti. Oltretutto non si sa chi siano. Perché dovrei considerarlo una fonte attendibile? In base a cosa? Il Giornale ha fatto questo interessante servizio, vi consiglio di leggerlo fino in fondo.

Per par condicio, vi consiglio poi anche un paio di letture “communiste”: Loretta Napoleoni che se la ride su Al Qaida, e Megachip che (finalmente!) ci racconta come la rivolta sia in realtà una guerra civile, tra la Cirenaica, regione storicamente ribelle, e il governo centrale che i suoi appoggi tra la popolazione li ha eccome.

Tirando le somme, la sensazione è quella che no, non si tratta di rivoluzioni colorate ma di rivolte spontanee. Ma che in tutta fretta si sta cercando di “colorare” in corso d’opera, magari con un intervento militare interforze là dove serve, per motivi “umanitari“. Sia mai che siano le popolazioni a decidere chi le dovrà governare: si sa, le popolazioni sceglierebbero sicuramente sbagliato. Con buona pace delle “rivoluzioni per la democrazia”.

Una piccola teoria, infine, ce l’ho: ma è catastrofista e apocalittica. Stanno cadendo regimi antichi, retti da governanti anziani, stanchi, corrotti. Vanno tutti sostituiti in fretta con politici giovani, forti e affidabili, prima che sia troppo tardi e succeda quel che ha da succedere.

Ma è una teoria sicuramente stupida.

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