Come spesso accade alle nostre latitudini, e intendo in Italia, la calma apparente che si avverte a livello sociale stride rispetto a situazioni potenzialmente esplosive. È successo negli anni successivi alla crisi del 2008, mentre montavano e si moltiplicavano proteste non solo nell’Europa continentale ma anche dall’altra parte del Mediterraneo, per non dire del movimento Occupy negli Stati Uniti, e la Grecia che eroica ha lottato prima di capitolare, abbandonata da tutti. Da noi ci sono state fugaci ondate che dimentichiamo facilmente. È facile dire che siamo un popolo di “pecoroni”, sull’onda emotiva dello scoramento è capitato anche a me in passato di sbottare e azzardare simili luoghi comuni. Ciò che manca in realtà è una direzione, una compiuta organizzazione, e questo impedisce ai pur giustificati momenti di avanzamento nelle lotte di ottenere risultati concreti, di passare a fasi successive. È una carenza non nuova, e dovremo prima o poi imparare dagli errori, no?
Siccome la storia la scrivono sempre i vincitori, è facile dimenticare, o quanto meno sottovalutare, quando anche in Italia si è stati sull’orlo della rivoluzione. Ricorre proprio ora il centenario di un momento chiave della storia del movimento operaio in Italia, che al massimo si è incontrato di straforo nei libri di testo: mi riferisco al biennio rosso, un’ondata europea sorta come conseguenza della grande vittoria della rivoluzione in Russia, e in particolare alla sua fase conclusiva in Italia, che sarebbe potuta essere decisiva per la classe operaia. Non accadde dal nulla, evidentemente. C’era stata la fondazione del Partito Socialista Italiano nel 1892, la nascita delle prime camere del lavoro nel 1895,e la loro unificazione nella CGdL nel 1906, nel 1901 la nascita della Fiom. Questi anni di sviluppo della coscienza di classe permisero l’ottenimento di prime conquiste importanti, come la riduzione dello sfruttamento di donne e bambini e delle ore di lavoro (10), mentre nel 1910 nasceva Confindustria per contrastare la classe operaia in ascesa e per fare lobby e richiedere commesse statali, dimostrandosi dagli albori una classe parassitaria, non diversamente da quello che accade anche oggi (e intendo anche in questi giorni). Durante il biennio rosso il processo di radicalizzazione assume una nuova dimensione, dovuta anche alle conseguenze drammatiche della prima guerra mondiale. Oltre allo sciopero squisitamente politico nel luglio del 2019 in sostegno della giovane repubblica sovietica, attaccata da diversi eserciti stranieri, tra cui italiani, iniziò una fase sempre più intensa e contagiosa di scioperi e poi occupazioni. Nel 1919 erano nati i primi consigli di fabbrica a Torino, costituiti da delegati votati da tutti i lavoratori, anche da quelli non iscritti ai sindacati, ed è proprio in questi nuovi organismi che Gramsci vede un embrione del potere operaio e spinge per la loro estensione. Nel 1920 lo “sciopero delle lancette” fu determinato dall’opposizione dei lavoratori al mantenimento dell’ora legale oltre lo straordinario scenario bellico per incrementare la produttività a scapito delle ore da trascorrere a casa e in famiglia (una battaglia mai vinta fino ad oggi quando finalmente si avvicina un’eventuale abolizione, anche se concretamente i singoli stati hanno facoltà di scegliere se optare per l’ora legale o quella solare durante tutto l’anno). Alle proteste i padroni reagiscono con la serrata mentre sindacato e partito decidono di sconfessare lo sciopero e trovare un accordo coi padroni. Viene convocato il congresso straordinario e si decide di praticare l’ostruzionismo, ovvero di rallentare i ritmi produttivi eseguendo in modo pedissequo le regole creando difficoltà ma senza incorrere nel rischio di licenziamento. Si decide anche di rispondere ad un’eventuale serrata con l’occupazione, e così dopo la prima serrata alla Romeo di Milano iniziano le occupazioni, e tra l’1 e il 4 settembre ne nascono in tutta Italia. Il Viminale si ritrova sommerso dalle comunicazioni delle Prefetture, in cui si dà notizia delle occupazioni e si chiedono rinforzi e direttive, richieste che il governo centrale non può e non sa accogliere. Da numerosi documenti si riscontrano le collaborazioni tra operai di diverse industrie per garantire la prosecuzione delle attività in piena autonomia, dimostrando la capacità della classe operaia di gestire la produzione autonomamente e sostanzialmente l’inutilità della proprietà privata dei mezzi di produzione. La classe è pronta, e trova pure la collaborazione, in una prima fase, della classe media, dei tecnici, che partecipano alle occupazioni quando si rendono conto che gli operai hanno la situazione in mano. A quel punto ciò che servirebbe sarebbe la direzione di un partito pronto a gestire la transizione, ed è quello che nei fatti manca. I dirigenti di PSI E CGdL non sanno né vogliono gestire la situazione, e mentre i padroni chiedono l’intervento del governo, loro sperano nella “neutralità”di quest’ultimo. Alla fine il governo Giolitti, che non può usare il pugno duro non solo perché non ha i mezzi ma anche perché non potrebbe far attaccare le fabbriche rischiando di danneggiarle, media per ottenere alcune concessioni di facciata affinché la CGdL smobiliti i lavoratori. Il 19 settembre si firma un accordo in cui si vagheggia di una fantomatica cogestione e tra il 25 e il 30 si smobilitano le fabbriche, ottenendo come risultato poco o nulla. Sfuma così il più grande movimento rivoluzionario che ha attraversato la storia di questo paese, tra l’altro aprendo le porte al fascismo che ha la precisa funzione di distruggere l’organizzazione operaia. Pochi mesi dopo si consuma anche la scissione al congresso del PSI, con la nascita del Partito Comunista d’Italia ad opera di Gramsci e Bordiga. Alla fine del biennio rosso si ha una sconfitta bruciante ma non definitiva della classe operaia.
Ricordare ciò che è accaduto cento anni fa non è semplice esercizio della memoria, per quanto sarebbe meritevole in sé, ma deve aiutarci a guidare le nostre azioni affinché quando il momento arriverà saremo pronti, perché la storia non è scritta una volta per sempre, e la classe può essere ancora protagonista. Oggi è necessario più che mai.